Gli yoga della tradizione: rājayoga, hathayoga, layayoga e mantrayoga. Capitolo 3

Non è possibile parlare di yoga se non si conosce lo scopo finale che si prefigge di raggiungere (samādhi), i mezzi per conseguirlo e come, originariamente, sono stati trasmessi questi mezzi. All’interno della metafisica induista, ci sono diversi sistemi di studio, diverse scuole che affrontano l’argomento della spiritualità da diverse prospettive, ma che sono fortemente in relazione l’una con l’altra e tutte fanno riferimento ai Veda e ai Tantra, la connessione tra rivelazione vedica e tantrica è maggiore di quello che comunemente si pensa, come emerge da alcuni dei principali Tantra, ad esempio, i già citati, Kulārnavatantra, il “Tantra dell’oceano dei Kula”, Tantra principale di uno dei lignaggi più antichi ed esoterici di tutto il tantrismo, la scuola dei kula o kulamārga (sistema poi incorporato in quello śaiva kāśmiro, trika, sistematizzato da Abhinavagupta X-XI secolo d.C.) e dal Tirumantiram, del sistema tantrico meridionale, śaivasiddhānta. In conclusione, è almeno dal XIII secolo d.C. (Dattātreyayogaśāstra, Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019) o dal V-VI secolo d.C. (per coloro che considerano il Tirumantiram ascrivibile a quell’epoca, Thirumandiram, A Classic of Yoga and Tantra, by Siddhar Thirumoolar, English translation and notes by Dr. B. Natarajan, D. Litt., Edited by Govindan, M. A., Babaji’s Kriya Yoga and Publications, Inc. Montreal, 1993, 1996, 2003) che esiste un sistema integrato di tecniche consolidate quali āsana, prānāyāma, bandha, mudrā, mantra e kriyā conosciuto come yoga, come descritto all’interno dei suddetti confini (v. sopra) i cui inequivocabili segni si vedono già nel II secolo a.C. – IV secolo d.C. con lo Yogasutra di Patanjali. Se vogliamo quindi comprendere lo scopo ultimo dello yoga e i mezzi per raggiungerlo, dobbiamo attingere da tutti quei sistemi di riferimento all’interno dei quali lo yoga nasce e si struttura. Nelle librerie occidentali, già da un pezzo, troviamo diversi testi divulgativi sullo yoga, sulla kundalinī, sui cakra, sull’hathayoga, ecc… ma ciò che il lettore ordinario o superficiale non si chiede è da dove gli autori di questi testi attingono le loro conoscenze, qualora anche questi testi divulgativi abbiano un fondamento conoscitivo solido e non siano, come a volte accade, inventati di sana pianta o in parte, dall’autore. Semplice, dai primi testi riconosciuti che hanno trasmesso all’umanità tutto quello che sappiamo rispetto allo yoga e alla sua origine, ossia, per fare alcuni esempi: Yogasūtra, Hathayogapradīpikā, Gorakshaśataka, Gherandasamhitā, Śivasamhitā, Tirumantiram, Dattātreyayogaśāstra, Kaulajnānanirnayatantra, Kubjikamātatantra, Shatchakranirūpana, Sāmkhyakārikā, Kaulārnavatantra, Katha Upanishad, Taittīrya Upanishad, Śvetāśvatara Upanishad, Yoga Kundalī (o Kundalinī) Upanishad, ecc… ma anche le Samhitā vediche, e non solo per gli indizi iniziali di certi aspetti metafisici relativi allo yoga (vrātya, tapas, ecc…) ma relativamente a quei mantra che sono successivamente entrati a far parte del complesso delle tecniche yoga, come nel mantrayoga e nel layayoga, incluso il mantraśāstra del sistema tantrico sia nella componente ritualistica, kriyāpāda, che in quella appunto dedicata allo yoga, yogapāda. Pensiamo ad esempio, all’antico mantra Om namah Śivāya, mantra principale di tutta la tradizione śaiva e uno dei mantra maggiormente utilizzati nel mantrayoga che, come sappiamo, è una componente fondamentale del rājayoga, questo è un mantra, come abbiamo già detto, la cui origine è antica, almeno, di 2200 anni ed è da ricercarsi nello Yajurveda (XII-X secolo a.C.). Senza questi riferimenti, ad oggi, non avremo né libri divulgativi sullo yoga, degni di lettura o meno, né istruttori yoga con relativi corsi e con buone probabilità neanche “contattisti” che disquisiscono di karma, cakra, kundalinī e quant’altro, lo stesso movimento New Age sorto alla fine del XX secolo, sarebbe ora scevro, almeno, dell’ottanta per cento delle sue teorie, in quanto si basano su concetti, più o meno modificati, mutuati dall’induismo, più specificatamente dalla tradizione vedica e tantrica e, in senso lato, dalla filosofia orientale. Lo yoga, di cui nessuno può attestarne in maniera conclusiva e definitiva l’origine, sebbene, come abbiamo visto, vi siano delle direzioni accademiche più o meno definite, condivise, divergenti, maggioritarie o minoritarie (The Indus Valley Origin of a Yoga Practice, Yan Y. Dhyansky, Artibus Asiae 48, nos. 1–2, 1987. The Asrama System: The History and Hermeneutics of a Religious Institution, Patrick Olivelle, Oxford University Press, 1993. The Origin and Development of Early Indian Contemplative Practices, Edward Fitzpatrick Crangle, Harrassowitz Verlag, 1994. The Shape of Ancient Thought: Comparative Studies in Greek and Indian Philosophies, Thomas McEvilley, 2002. The Origins of Yoga and Tantra, Indic Religions to the Thirteenth Century, Geoffrey Samuel, Cambridge University Press, 2008. Unifying Hinduism, Philosophy and Identity in Indian Intellectual History, Andrew J. Nicholson, Columbia University Press, 2010.), è stato tradizionalmente trasmesso da Śiva, Yogīśvara (Signore degli yogīn) e Yogeśvara (Signore dello yoga), attraverso lignaggi definiti, dīksha sampradāya paramparā, all’umanità nel corso dei tempi come si evince dalle fonti tradizionali ed originali suddette. L’unico obiettivo dello yoga era, originariamente, prima che fosse importato in Occidente e aggiungo, prima della colonizzazione inglese, ottenere il samādhi, strettamente interconnesso ai concetti metafisici di moksha (liberazione) e kaivalya (assolutezza), ossia, la realizzazione spirituale, concetto quest’ultimo che è alla base dell’ultimo capitolo del testo Yogasūtra, titolato, appunto, kaivalyapāda. L’obiettivo del rājayoga e quindi degli altri tre yoga sussidiari (hatha, laya e mantrayoga) è il samādhi e il processo che porta a raggiungere questo obiettivo, come ci insegna sempre la tradizione, è l’insieme di più fasi che coinvolgono il sistema dei cakra, delle nādī e di kundalinī, attraverso tecniche specifiche e collaudate: āsana, prānāyāma, bandha, mudrā, mantra e kriyā, tutte tecniche che non devono essere modificate né inventate, perché sono già state “inventate” e testate. In sintesi, lo yoga, lo scopo dello yoga, come suddetto, è quello di “unire”, “connettere”, “integrare”, parallelamente al significato dell’altro termine sanscrito connesso al rājayoga, “samadhi”; “unione”, “assorbimento”, “integrazione”. Ma cosa ci dicono le fonti originali dello yoga rispetto a questa “unione”, a questo “assorbimento”, tra jīva e ātman? Che soddisfare questo scopo è realizzare il fine ultimo dell’incarnazione e che va soddisfatto proprio durante l’incarnazione stessa, in questo mondo, Bhūrloka, e quindi in questo corpo, annamayakośa o sthūlaśarīra: “evam pravartitam cakram nanuvartayatiha yah aghāyur indriyārāmo mogham pārtha sa jīvati”, ossia, “chi in questa terra non segue il movimento della ruota (ciclo) come stabilito ma vive in dissonanza con esso, vivendo solo per la soddisfazione dei sensi, vive inutilmente o figlio di Prithā” Bhagavadgītā III 16 (v. Bhagavadgītā, con il commento di Srī Śankāracārya, Traduzione di Giampiero Marano, Luni Editrice-Milano, 1997. La Bhagavadgītā “così com’è”, A. C. Bhaktivedanta Swami Prabhupāda, Edizioni Bhaktivedanta, Firenze, 1981. Bhagavadgītā, il canto del glorioso Signore, a cura di Stefano Piano, Magnanelli Edizioni, 2018). Come, precedentemente detto, ricordiamo che le quattro distinzioni primarie documentate dello yoga compaiono, per la prima volta in testi come il Dattātreyayogaśāstra (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019) che suddivide lo yoga in mantrayoga, layayoga, hathayoga e rājayoga dove, anche qui, l’obiettivo finale è il rājayoga, tra l’altro il Dattātreyayogaśāstra è il primo testo, storicamente documentato, in cui si fa menzione per la prima volta del termine “hatha”, associato al rājayoga (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019). Prima che lo yoga venisse importato in Occidente tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, sotto la spinta della colonizzazione inglese dell’India, non esistevano tanti yoga ma tecnicamente quattro, se si escludono gli yoga, come già detto, che non utilizzano i kriyā tradizionali (āsana, prānāyāma, mudrā, bandha e mantra), ossia, gli yoga definiti nella Bhagavadgītā che ricordiamo essere: karmayoga, yoga dell’azione disinteressata, jnānayoga, yoga della conoscenza spirituale e bhaktiyoga, yoga della devozione, tutti yoga la cui pratica si può ravvedere nei primi due anga dell’ashtāngayoga/rājayoga, yama e niyama, nella forma di ahimsā (non nuocere), satya (veridicità), asteya (non appropriarsi indebitamente di qualcosa che non ci appartiene sia con l’azione, sia con la parola e sia con il pensiero), brahmacharya (regolazione dell’istinto sessuale e della conseguente dispersione di śukra, il liquido seminale, il settimo tessuto o dhatu, prodotto degli altri sei, come spiegato in āyurveda), aparigrāha (essere liberi dall’avidità di possedere, di afferrare, quindi anche dall’invidia), śauca (purificazione del corpo fisico attraverso quello che Patanjali definisce sattvaśuddhi, ossia il riequilibrio del sattva guna rispetto all’eccesso di tamas guna), samtosha (accontentamento, appagamento, attitudine alla base del non attaccamento ai frutti dell’azione) tapas (fervore, ardente aspirazione), senza questi cinque yama e questi primi tre niyama non è possibile raggiungere il nishkam karma, azione disinteressata, libera dai frutti piacevoli o spiacevoli, obiettivo finale del karmayoga, gli altri due yoga sono sintetizzati dagli ultimi due niyama, svādhyāya (studio dei testi sacri e studio di sé) relativamente sia al jnānayoga che al bhaktiyoga e Īśvarapranidhāna (devozione, abbandono al Signore) relativamente al bhaktiyoga. Questi yoga: karmayoga, jnānayoga e bhaktiyoga, anche se non appartengono agli yoga tecnici (hathayoga, layayoga e mantrayoga), in senso stretto, che fanno riferimento al rājayoga come, del resto i primi due anga, yama e niyama (la pratica effettiva comincia con il terzo anga, āsana, peraltro, nome associato al primo capitolo del testo Hathayogapradīpikā), sono però fasi fondamentali per proseguire negli aspetti più avanzati del mantrayoga, per poi accedere al layayoga e all’hathayoga, contenuti nei successivi quattro anga (ricordiamoli: āsana, prānāyāma, pratyāhāra) per giungere agli ultimi tre anga (dhāranā, dhyāna e, infine, samādhi), le cosiddette membra (anga) interne, definite samyama, il cuore del rājayoga. Il rājayoga, come abbiamo rilevato e come ora approfondiremo, può essere considerato a tutti gli effetti il ponte di collegamento tra le due rivelazioni dell’induismo, quella vedica (relativa ai Veda) e quella tantrica (relativa ai Tantra), armonizzando al suo interno qualsivoglia contrapposizione. Ripetiamo alcuni principi fondamentali della nostra narrazione per poi approfondirli. Prima della colonizzazione inglese (1600-1947), gli yoga come insieme di tecniche pratiche e specifiche per raggiungere moksha, la liberazione spirituale, erano tecnicamente quattro; mantrayoga, layayoga, hathayoga e rājayoga e tra loro il contenitore principale, nonché il fine ultimo, è sempre stato rappresentato dal rājayoga di cui gli altri sono preparatori, sussidiari o ausiliari, questo anche perché il rājayoga è sinonimo di ashtāngayoga, lo yoga storicamente più antico, il cui sistema si struttura sulle otto membra o mezzi, yoga descritto nel primo testo sistematico sullo yoga, lo Yogasūtra ascritto a Patanjali e/o alla sua scuola e datato in un arco di tempo che va dal II secolo a.C. sino al IV secolo d.C., almeno, 800 anni prima del testo Dattātreyayogaśāstra, datato intorno al XIII secolo, in cui compare la più antica formulazione attestata dello yoga denominato “hatha” e la prima suddivisione in quattro yoga (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019). Le otto (ashta) “membra” (anga) di questo sistema yoga più antico degli altri, vengono descritte dettagliatamente nel secondo capitolo, sādhanapāda, il libro del metodo o della pratica, ai versetti 28-29, per essere poi, successivamente, approfonditi: “yogāngānushthānāt aśuddhikshaye jnānadīptih āvivekakhyāteh” e “yama niyama āsana prānāyāma pratyāhāra dhāranā dhyāna samādhayah ashtau angāni” Yogasūtra II 28-29, ossia, “quando tutte le impurità sono dissolte (aśuddhikshaye) attraverso la pratica delle membra dello yoga (yogāngānushthānāt), allora, la luce della vera conoscenza (jnānadīptih) porta alla corretta discriminazione dharmica (āvivekakhyāteh)” e “le otto membra (ashtau angāni) dello yoga sono; comportamenti da evitare (yama), comportamenti da attuare (niyama), posture (āsana), controllo della respirazione (prānāyāma), raccoglimento (pratyāhāra), concentrazione (dhāranā), meditazione (dhyāna), assorbimento nel Divino (samādhi)”. Tutto il percorso dello yoga tradizionale si snoda, come abbiamo visto, intorno ad alcuni punti fondamentali che vertono, tra gli altri, sulla centralità della figura di Śiva (come di Īśvara) e sulle relative dīksha sampradāya paramparā o più semplicemente, sampradāya paramparā, le tradizioni dei lignaggi spirituali, da Śiva derivate, in cui la figura del guru, il maestro spirituale, e la relativa śaktipāta, la discesa della potenza del guru su śishya, discepolo, aspetto centrale nel tantrismo, alla base del concetto di dīkshā (consacrazione, iniziazione), è tradizionalmente un requisito indispensabile per ottenere risultati dalla pratica (sādhana) dello yoga, tanto nell’hathayoga dei Gorakhnāthī, il lignaggio dei nāth/nātha e dei siddha (vedere sopra), quanto nel cosiddetto kriyāyoga degli svāmin Daśanāmī Samnyāsī, i dieci ordini monastici tradizionali induisti (v. sopra). Altro punto fondamentale che accomuna il kriyāyoga dei Daśanāmī Samnyāsī con l’hathayoga dei Gorakhnāthī è che entrambi gli yoga hanno come fondamento e riferimento principale, l’ashtānga o rājayoga che rappresenta il contenitore, nonché, l’obiettivo finale da raggiungere, com’è attestato dai maggiori testi di riferimento di entrambi i sistemi, la tradizione vedica, attraverso il vedānta e il relativo kriyāyoga e la tradizione tantrica, attraverso l’hathayoga, convergono su alcuni punti fondamentali, poi dimenticati o banalizzati, durante il processo di esportazione in Occidente. Lo yoga tradizionale esisteva, comunque, anche prima di essere conosciuto in Occidente ed è stato conservato nella sua autenticità fino ai giorni nostri attraverso cinque principali rami, uno relativo a Patanjali, uno in relazione, originariamente, alla tradizione vedica, attraverso il vedānta, a mezzo dei Daśanāmī Samnyāsī e del relativo kriyāyoga, un terzo connesso alla tradizione tantrica dei Gorakhnāthī (kanphata yogin), relativamente all’hathayoga, il quarto ramo, in relazione al tantrismo dei kula (successivamente importato dal sistema tantrico settentrionale trika: Tantra, lo Śivaismo del Kaśmīr, Kamalakar Mishra, Editore Laksmi, 2012), attraverso i primi testi sui cakra e la kundalinī (come Kubjikāmatatantra e Kaulajnānanirnayatantra) e il quinto ramo relativamente al tantrismo meridionale dello śaivasiddhānta che approfondiremo successivamente. In riferimento all’ordine dei Daśanāmī Samnyāsī e a quello dei Gorakhnāthī, è utile rilevare come i loro rispettivi yoga (kriyā e hatha) convergono, in numerose tecniche avanzate (kriyā) e meno avanzate, evidenziando la stessa matrice. Lo yoga classico è da intendere come quell’insieme di pratiche psico-fisiche il cui obiettivo è sempre stato quello di realizzare moksha, la liberazione dall’illusione dell’incarnazione perpetrata da māyāśakti, attraverso, come ci ricorda il vedānta, le sue due potenze, āvaranaśakti, potenza oscurante, obnubilante, caratteristica di tamas guna (il termine sanscrito “tamas”, significa “oscurità”) e vikshepaśakti, potenza proiettiva, caratteristica di rajas guna che, per estensione, si caratterizzano nei pancakleśa (le cinque afflizioni) dell’ashtāngayoga. Come spiega il testo più antico sullo yoga, Yogasūtra, definito, come affermano alcuni accademici, Patanjalayogaśāstra (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019), tutto il percorso dello yoga tradizionale consiste nel liberarsi dai pancakleśa e dai conseguenti e precedenti samskāra, i semi karmici subliminali, condizionamenti, peraltro, ai quali il Signore o Īśvara non è sottoposto, essendo un purushaviśesha, ossia, un purusha (spirito) del tutto particolare (viśesha), differente da tutti gli altri purusha (noi), come specifica chiaramente Patanjali nel suo testo (Yogasūtra I 24), giustificando così, l’importanza di Īśvarapranidhāna (resa, abbandono al Signore), tema ricorrente la cui importanza viene evidenziata più volte all’interno dello Yogasūtra. Come abbiamo visto, la tradizione dell’hathayoga che racchiude tutte le tecniche conosciute come āsana, prānāyāma, mudrā, bandha e mantra è interconnessa al rājayoga, non solo in mutua relazione ma come attestano le fonti tradizionali, in un rapporto di subordinazione sia cronologica, rappresentando una fase storica successiva al rājayoga, sia come fine ultimo che è il raggiungimento del sāmadhi, ultimo anga dell’ashtānga/rājayoga e questo è vero per il mantrayoga, per il layayoga e per l’hathayoga (vedere anche Śivasamhitā). Essendo, dunque, l’obiettivo dello yoga quello di riunificare la coscienza incarnata, jivātma, con pāramātman, il sé supremo, tale obiettivo viene raggiunto come insegna Patanjali, attraverso tre presupposti imprescindibili che sono, abbandono ad Īśvara (Signore), tapas, il calore o ardore, prodotto delle pratiche meditative, alla base dell’aspirazione ascetica e di qualsiasi atto creativo, termine mutuato dai Veda, principio fondamentale della creazione stessa insieme a kāma (I Veda, Mantramanjarī, Testi fondamentali della rivelazione vedica, Volume I-II, Raimon Panikkar BUR, RCS Libri S.p.A., Milano, 2001) ed, infine, svādhyāya, studio delle sacre scritture in relazione al nostro sé: “tapah-svādhyāeshvara-pranidhānāni kriyā-yogah Yogasūtra II 1, nel senso che tapas, svādhyāya e Īśvarapranidhāna è lo yoga in azione, nella concretezza, in pratica, versetto fondamentale dal quale deriva il cosiddetto kriyāyoga, qui nominato per la prima volta, motivo per cui nei testi divulgativi sul kriyāyoga, i riferimenti all’ashtāngayoga o rājayoga di Patanjali sono costanti. D’altra parte non potrebbe che essere così dal momento che il kriyāyoga, il quale consiste, anch’esso, in un insieme di tecniche che utilizzano āsana, prānāyāma, mudrā, bandha e mantra è stato conservato e trasmesso attraverso la figura dello svāmi o swāmi, ovvero, un rappresentante dei Daśanāmī Samnyāsī, come sappiamo, definiti tecnicamente ordini vedantici in quanto sistematizzati da Śankara (primo decodificatore del vedāntadarśana) il quale secondo la tradizione era, tra l’altro, grande studioso e conoscitore dello Yogasūtra, due esempi, su tutti, di due ordini Daśanāmī Samnyāsī che hanno contribuito alla diffusione del kriyāyoga, conosciuti anche in Occidente, sono, come già accennato, l’ordine dei Giri (v. ad es. Lahiri Mahāsaya, Yukteśwar, Yogānanda, ed altri) e i Sarasvatī/Saraswati (v. ad. es. Śivānanda, Satyānanda ed altri). I Daśanāmī Samnyāsī sono definiti vedantici, quindi, proprio in relazione al suo istitutore Śankarācārya, considerato dalla tradizione uno dei maggiori sistematizzatori del vedāntadarśana che come lo yoga e gli altri quattro darśana è āstika. Il Vedānta, come sappiamo, si struttura sul jnānakanda, la parte filosofica dei Veda contenuta nelle Upanishad, annesse agli Āranyaka, ai Brāhmana, quindi alle Samhitā e come abbiamo visto, Śankara, è stato il decodificatore dell’advaitavedānta o vedānta non dualista. Il kriyāyoga costituisce, in altri termini, l’insieme di quelli che l’autore del Dattātreyayogaśāstra definisce mantrayoga, layayoga e hathayoga, propedeutici e supplementari al rājayoga (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019). Attraverso Śankarācārya e i relativi Daśanāmī Samnyāsī, il rājayoga si collega direttamente alla rivelazione vedica, il termine “svāmi” o “swāmi” non è, dunque, un titolo che dovrebbe essere attribuito a chiunque e con leggerezza perché, tradizionalmente è il titolo che identifica un membro iniziato dell’ordine Dasanāmī, ovvero, appartenente alla dīksha sampradāya pramparā dei Daśanāmī Samnyāsī e solo uno svāmi può conferire questo titolo a qualcun altro, come fece, ad esempio, Yukteśwar con Yogānanda o Śivānanda con Satyānanda. Il cosiddetto kriyāyoga che come abbiamo visto (Yogasūtra II 1), altro non è che la componente pratica del rājayoga, si è conservato ed è stato diffuso in Occidente anche a mezzo dei rappresentanti dei Daśanāmī Samnyāsī come i Giri (Swami Lahiri Mahasaya, Swami Yukteśwar, Swami Paramahansa Yogānanda, Swami Paramahansa Pranabānanda, Swami Jnānendranath Mukhopadhyay, Swami Rangin Mukherji ed altri) e i Sarasvatī/Saraswati (Swami Śivānanda, Swami Satyānanda, Swami Niranjanānanda ed altri), nella loro opera di divulgazione in Occidente, dalla prima metà del XX secolo, tutti i maggiori rappresentanti del sistema definito kriyāyoga, in linea con la tradizione, considerano l’ashtāngayoga/rājayoga con i suoi anga, un riferimento principale e imprescindibile (La scienza sacra, Swami Sri Yukteswar, Self-Realization Fellowship 1949, Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma 1993. Original Kriya Yoga Volume I -Pratiche essenziali-, Rangin Mukherjee, Printed by Amazon Italia Logistica S.r.l., 2017. Original Kriya Yoga Volume II -Pratiche e Tecniche avanzate-, Rangin Mukherjee, Printed by Amazon Italia Logistica S.r.l., 2017,2020. La scienza del Kriya Yoga, i Maestri, le tecniche e la pratica, Gli Yoga Sutra di Patanjali alla luce del Kriya Yoga, Roy Eugene Davis, Edizioni Vidyananda, 1994. Manuale di Kriya Yoga integrale, Giovanni Formisano, Anima Edizioni, 2022). I kriyā classici utilizzati nel sistema kriyāyoga sono mutuati in toto dalle tecniche di hathayoga come descritte nei testi di riferimento tradizionali, ossia come insieme di āsana, prānāyāma, bandha, mudrā e in casi specifici mantra e l’hathayoga, come già specificato, ingloba in sé sia il mantrayoga e sia il layayoga, espandendo ed elaborando le strutture di entrambi, per avvicinarsi maggiormente al rājayoga. Una delle tecniche maggiormente praticate nel sistema del kriyāyoga è, inoltre, il prānava, la ripetizione del bij mantra Om, insieme alla contemplazione del suo significato come suono di Iśvara (Signore supremo), tecnica meditativa descritta nello Yogasūtra (I 27-28). Ora, per favorire, al corsista, l’assimilazione di alcuni concetti fondamentali, consolidiamo alcuni punti:

 

1) gli yoga che sono caratterizzati da un insieme integrato di tecniche specifiche, collaudate da, almeno, 1000-700 anni (con il Gorakhśashataka, XI-XIII secolo d.C.) e da attuare attraverso āsana, prānāyāma, bandha, mudrā, mantra e kriyā sono tradizionalmente cinque, convergono l’uno nell’altro, alla fine convergono tutti nel rājayoga e sono: kriyāyoga, che è fattivamente un insieme di mantrayoga, layayoga e hathayoga, prende il nome dal primo versetto del secondo capitolo del testo Yogasūtra II 1: “tapah-svādhyāyeshvara-pranidhānāni kriyā-yogah”, ovvero; il calore ardente, il fuoco interiore, la determinazione ascetica (tapas), lo studio delle sacre scritture in relazione alla conoscenza/consapevolezza del sé superiore (svādhyāya) uniti all’abbandono (pranidhāna) al Signore (Īśvara) sono (i fondamenti) della pratica yoga (kriyāyoga). Mantrayoga, cioè, la conoscenza dei mantra e il loro utilizzo è, come insegna il testo Śivasamhitā, il primo degli yoga, segue layayoga (yoga dell’assorbimento o dissoluzione) che si caratterizza per la conoscenza dei cakra e le relative tecniche per intervenire su di essi e purificarli ed è lo yoga successivo a mantrayoga, l’hathayoga, integra in sé le conoscenze degli altri due yoga unendole ad altre tecniche atte a stimolare il risveglio di kundalinī, questo è lo yoga che, come ci ricorda l’Hathayogapradīpikā, conduce all’eccelso rājayoga. Come già accennato, il testo Śivasamhitā, ricalcando i quattro yoga della tradizione, anticipati dal Dattātreyayogaśāstra, ci dice:

atha caturvidhayogakathanam mantrayogo hathaścaiva layayogastritīyakah caturtho rājayogah syātsa dvidhābhāvavarjitahŚivasamhitā V 9 (o 12 o 14, secondo la versione), ossia: “Sono quattro gli yoga: mantrayoga, hathayoga, layayoga e rājayoga che trascende la dualità”, “caturdhā sādhako jneyo mridumadhyādhimātrakāh adhimātratamah śreshtho bhavābdhau langhanakshamahŚivasamhitā V 10, ossia: “sappiate che i praticanti sono di quattro tipologie: tiepidi, medi, ardenti e molto ardenti, il molto ardente è il più eccellente di tutti perché può attraversare l’oceano del mondo”(v. Lo Yoga rivelato da Śiva (Śiva-Samhitā), a cura di Maria Paola Repetto, Promolibri, Torino, 1990. The Shiva Samhita, A Critical Edition, and English Translation, James Mallinson, YogaVidya.com, Woodstock, NY, 2021. Shiva Samhita, A Classical Text in Yoga and Tantra, Swami Vishnuswaroop, Divine Yoga Institute Kathmandu, Nepal), prosegue poi nei versetti successivi (11-14) specificando come l’aspirante con qualità tiepide dovrebbe essere indirizzato dal guru a praticare il mantrayoga, l’aspirante con qualità medie dovrebbe essere indirizzato dal guru a praticare il layayoga, l’aspirante con qualità ardenti dovrebbe essere iniziato all’hathayoga, e colui che ha qualità molto ardenti, iniziato a tutti i tipi di yoga (v. Lo Yoga rivelato da Śiva (Śiva-Samhitā), a cura di Maria Paola Repetto, Promolibri, Torino, 1990. The Shiva Samhita, A Critical Edition, and English Translation, James Mallinson, YogaVidya.com, Woodstock, NY, 2021. Shiva Samhita, A Classical Text in Yoga and Tantra, Swami Vishnuswaroop, Divine Yoga Institute Kathmandu, Nepal). Una prima distinzione tra sādhaka (aspiranti) era già emersa nello Yogasūtra, tra aspiranti con attitudine blanda, moderata ed intensa (Yogasūtra I 22) poi chiaramente ripresa dallo Śivasamhitā.

 

2) Il prānava, che è la recitazione del mantra Om in sinergia con svarayoga (la respirazione yoga) sempre unita alla contemplazione sul suo significato come suono di Īśvara, insieme agli otto anga, sono tra gli aspetti fondamentali di tutto il sistema pratico del kriyāyoga. Il prānava, Omkāra o ekākshara, è lo stesso udgīta delle Upanishad, ovvero il prāna in connessione con Om (prānava) che sconfigge gli asura (vedere Chāndogya Upanishad), la recitazione dell’Om, inteso come suono di Īśvara, è una delle più antiche descrizioni sistematiche e complete di una forma meditativa yoga (dhyāna), prima meditazione yoga descritta e raccomandata nel testo più antico sullo yoga, lo Yogasūtra. Nei testi di Paramahansa Yogānanda e dei suoi discepoli il primo che sotto suggerimento del suo guru Svāmi Yukteśwar Giri ha avuto certamente il merito di diffondere, all’inizio degli anni novanta, alcuni aspetti del kriyāyoga, nonché la figura di Shrī Mahāvatār Babaji, in Occidente, vi sono importanti riferimenti all’ashtāngayoga, a Patanjali e al suo testo Yogasūtra, anche attestato dai suoi diretti discepoli (Patanjali rivelato, Gli Yoga Sutra secondo gli insegnamenti di Paramhansa Yogananda, Swami Kriyananda, Ananda Edizioni, 2014).

 

3) I kriyā che sono intesi tecnicamente come sistemi pratici integrati di āsana, prānāyāma, bandha, mudrā e mantra, sono mutuati dall’hathayoga dei Gorakhnāthī, dall’ashtāngayoga dei tantrici dello śaivasiddhānta e dalla conoscenza dei cakra relativamente ai testi di matrice kula in testi come Hathayogapradīpikā, Gorakshaśataka, Gherandasamhitā, Śivasamhitā, Tirumantiram, Kubjikamātatantra, Kaulajnānanirnayatantra e Shatcakranirūpana come anche attraverso l’ordine tantrico degli asceti śaiva kanphata yogin (yogin dalle orecchie forate), ordine Gorakhnāthī fatto risalire direttamente a Shrī Gorakhnāth considerato come sappiamo, un avatār di Śiva dalla tradizione tantrica dei nāth e dei siddha che fa capo ad Adināth, il signore o protettore (nāth) originale o primo (Adi), identificato con Śiva stesso, come ci ricorda Svātmārāma nel suo Hathayogapradīpikā, membro egli stesso, della nāth sampradāya paramparā o Gorakhnāthī. L’ordine śaiva dei Gorakhnāthī, conosciuti anche come Adināth Sampradāya è una delle due maggiori tradizioni siddha, una settentrionale e una meridionale, che traggono origine dal primo nāth originale, il Signore Śiva e che sono state fondamentali nella trasmissione delle tecniche classiche quali āsana, prānāyāma, bandha, mudrā e mantra, uno dei maggiori centri di questo lignaggio è il Gorakhnāth Math, un monastero dell’ordine monastico nāth a Gorakhpur (la città di Gorakhnāth) nell’Uttar Pradesh, India settentrionale. Come abbiamo accennato, l’altra importante tradizione śaiva, oltre alla Adināth Sampradāya è quella dello shivaismo meridionale, come vedremo successivamente.

 

4) Il kriyāyoga è lo yoga, così definito, perlopiù trasmesso e diffuso all’interno dei Daśanāmī Samnyāsī, sebbene sia un termine composto utilizzato anche all’interno di alcuni lignaggi siddhar, prevalentemente tamil. L’hathayoga è invece lo yoga elettivo della sampradāya dei Gorakhnāthī. Sia il kriyāyoga degli ordini vedantici dei Daśanāmī Samnyāsī, sia l’hathayoga dell’ordine tantrico settentrionale dei Gorakhnāthī che lo yoga dell’ordine tantrico meridionale degli Śaivasiddhānta, convergono tutti nell’ashtānga/rājayoga di Patanjali conosciuto dalla tradizione anche come sistema di Patanjali. (v. Sarvasiddhāntasangraha e Sarvadarśanasangraha, anche Dattātreyayogaśāstra (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019). Relativamente ai due ordini dei Daśanāmī Samnyāsī e dei Gorakhnāthī abbiamo già approfondito sufficientemente la relazione tra essi e il sistema di Patanjali, al prossimo punto vedremo le profonde implicazioni dell’ashtāngayoga con il sistema tantrico śaivasiddhānta.

 

5) Il sistema śaivasiddhānta, originario del Kāśmir è da tempo una corrente śaiva tra le più importanti del ramo meridionale del tantrismo. Il Tirumantiram, decimo volume del Tirumurai (costituito da dodici volumi) è composto da 3047 versi ed è considerato un testo fondamentale del tantrismo śaivasiddhānta e uno dei principali testi di tutto il tantrismo meridionale. Il Tirumantiram è considerato il nucleo primario dello śaivasiddhanta (Thirumandiram, A Classic of Yoga and Tantra, by Siddhar Thirumoolar, English translation and notes by Dr. B. Natarajan, D. Litt., Edited by Govindan, M. A., Babaji’s Kriya Yoga and Publications, Inc. Montreal,1993, 1996, 2003) ed è attribuito a Tirumular, ritenuto un siddhar dalla tradizione śaivasiddhānta. Il Tirumantiram secondo alcuni è databile al V-VI secolo d.C. (Thirumandiram, A Classic of Yoga and Tantra, by Siddhar Thirumoolar, English translation and notes by Dr. B. Natarajan, D. Litt., Edited by Govindan, M. A., Babaji’s Kriya Yoga and Publications, Inc. Montreal,1993, 1996, 2003), coevo alle prime testimonianze accertate sul fenomeno tantrico (Tantra, André Padoux, A cura di Raffaele Torella, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 2011), secondo altri al VI-XII secolo d.C. (L’induismo. Temi, tradizioni, prospettive, Gavin Flood, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 2006) coevo al Gorakhśashataka, il primo testo accertato di hathayoga, oppure al XIV secolo d.C. (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019) coevo o leggermente posteriore al Dattātreyayogaśāstra. Questo testo si compone di nove Tantra ed è importante ai nostri fini per, almeno, due ragioni, la prima è già stata specificata ed è relativa al profondo legame che un testo eminentemente tantrico ha con la rivelazione vedica (v. sopra), la seconda riguarda lo stretto rapporto che ha con l’ashtāngayoga e con Patanjali, dimostrato dal contenuto del terzo Tantra (v.549-883), interamente dedicato al suddetto yoga, i primi nove capitoli di questo Tantra sono titolati rispettivamente: 1)Ashtānga Yogam, 2)Yama, 3)Niyama, 4)Āsana, 5)Prānāyāma, 6)Prathyāhāra, 7)Dhāranā, 8)Dhyāna e 9)Samādhi, non solo ma affrontano la questione da una prospettiva pratica, oltre che teorica, descrivendo fattivamente gli āsana meditativi, il prānāyāma, ecc… ad esempio, al versetto 558 viene descritto lo svastikāsana, al 559 il padmāsana, ecc… In questo senso è sia, se non altro, uno dei primi testi pratici di yoga in senso lato e sia il primo testo pratico di yoga che inserisce le tecniche che diverranno specifiche dello hathayoga, all’interno del sistema ashtāngayoga, qualora considerassimo la datazione al XIV secolo d.C. (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019), sarebbe comunque anteriore all’Hathayogapradīpikā (XV secolo d.C.), nel caso della datazione al VI-XII secolo d.C., sarebbe anteriore anche al primo testo accertato che menziona il termine “hatha” in relazione allo yoga, il Dattātreyayogaśāstra (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019), nonché al testo tradizionale più antico di hathayoga, il Gorakshaśataka (XI-XIII secolo d.C.) e contemporaneo ai primi testi tantrici di matrice kula che ci parlano dei cakra, Kaulajnānanirnaya e Kubjikāmata (VI-X secolo d.C.) ma se fosse databile al V-VI secolo d.C. (Thirumandiram, A Classic of Yoga and Tantra, by Siddhar Thirumoolar, English translation and notes by Dr. B. Natarajan, D. Litt., Edited by Govindan, M. A., Babaji’s Kriya Yoga and Publications, Inc. Montreal,1993, 1996, 2003), le tecniche yoga come āsana, prānāyāma, mudrā e bandha sarebbero addirittura descritte parallelamente alle prime sistematizzazioni documentate sul tantrismo, 423-24 d.C., Gangdhar (Tantra, André Padoux, A cura di Raffaele Torella, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 2011). Tutto questo dimostra, in ogni caso, che il sistema dello yoga dalle otto membra, nel suo aspetto teorico e pratico (hathayoga), non era prerogativa solo di Patanjali ma era un sistema conosciuto e praticato anche all’interno del lignaggio tantrico dei siddhar, nel quale la figura di Tirumular è parte integrante, il testo di Patanjali rimane, comunque, al momento, quello più antico sebbene manchi della componente pratica presente, invece, nel Tirumantiram. Altro aspetto degno di nota è l’alta considerazione che riveste Patanjali, il decodificatore dello yogadarśana, all’interno del tantrismo śaivasiddhanta, in cui è considerato un rishi (Tirumantiram IX 2790), per qualcuno Patanjali è uno dei diciotto siddhar, insieme a nomi quali Tirumular e Gorakhnāth (Babaji, lo yogi immortale. La tradizione del Kriya Yoga e i diciotto maestri Siddha, Marshall Govindan, Gruppo Futura, Jackson Libri, 1995).

 

6) Altro ordine di Daśanāmī Samnyāsī coinvolto nella diffusione dello yoga tradizionale in Occidente, tra la fine del 1800 e l’inizi del 1900 è stato quello dei Puri, grazie a Svāmi Ramakrishna e al suo discepolo Svāmi Vivekananda, attraverso il movimento Vedānta conosciuto col nome di Ramakrishna Math, appunto, un ordine monastico di monaci dell’ordine Puri che fa formalmente riferimento allo Shankara Math di Sringeri, uno dei quattro monasteri istituiti da Śankara come riferimenti spirituali per gli ordini monastici tradizionali e i pellegrini.

 

7) Aspetto fondamentale della tradizione yoga è la centralità della figura del guru (maestro spirituale) che come si evince, in maniera inequivocabile, dai testi fondamentali di tale tradizione (Hathayogapradīpikā, Śivasamhitā, ecc…) come da tutta la tradizione vedica e tantrica, è un elemento imprescindibile per la trasmissione della conoscenza e la corretta esecuzione della pratica. D’altra parte, tutta la tradizione vedica e tantrica e lo yoga non fa eccezione, si basa da sempre sulla trasmissione della conoscenza da parte del guru o maestro a śishya o discepolo, le sampradāya paramparā si fondano su questo legame che comincia ad essere strutturato in via definitiva già dai Veda, con le Upanishad e prima ancora con le figure leggendarie dei rishi, gli antichi veggenti, per poi consolidarsi con la smriti successiva, un esempio su tutti, la Bhagavadgītā. Anche nella tradizione tantrica, come dicevo, il rapporto guruśishya è imprescindibile, il concetto tantrico fondamentale di śaktipāta, letteralmente “la discesa della potenza”, avviene a mezzo del guru sul proprio discepolo che ha le caratteristiche per ricevere tale potenza, nei testi di hathayoga, si raccomanda costantemente la presenza di un maestro autorizzato e qualificato per eseguire le pratiche insegnate e non viene intesa come un’opzione: “evamvidhe mathe sthitvā sarvacintāvivarjitah gurūpadishtamārgena yōgameva samabhyasetHathayogapradīpikā I 14, ossia, “dimorando in una cella monastica come descritta, lo yogi, libero da ogni ansietà, dovrebbe praticare l’hathayoga esattamente come insegnato dal guru” e “athāsane dridhe yogī vaśī hitamitāśanah gurūpadishtamārgena prānāyāmānsamabhyaset” Hathayogapradīpikā II 1, ossia, “dunque lo yogi che ha dominato i propri attaccamenti e segue una dieta corretta, dopo avere acquisito stabilmente l’esecuzione degli āsana, deve eseguire il prānāyāma, seguendo l’insegnamento del maestro” (v. La Lucerna dello Hatha-Yoga (Hatha-yoga-pradīpikā), Svātmārāma, a cura di Giuseppe Spera, Promolibri Magnanelli, Torino, 1990, 1999), anche per capire quale tipo di yoga tradizionale è più adatto al praticante è necessario il guru, come si evince anche dal testo Śivasamhitā (v. sopra). Inoltre, aspetto degno di nota è che, sempre nel testo Śivasamhitā V (5-14), descrivendo le caratteristiche del migliore tra gli aspiranti, quello molto ardente, dice chiaramente ad un certo punto “… śāstraviśvāsasampanno devatā gurupūjakah…”, ossia, “… (un tale aspirante) ha fede nelle sacre scritture, in Dio e nel guru…”, in riferimento ancora a svādhyāya e Īśvarapranidhāna, come componenti fondamentali nella pratica yoga (kriyā), già enunciate, insieme al tapas in Yogasutra II 1. Nei lignaggi dei Daśanāmī Samnyāsī come in quello dei Gorakhnāthī, della Śaivasiddhāntasampradāya e del Kulamārga, la tradizione tenta, almeno, di mantenersi inalterata e la conoscenza originale viene conservata e trasmessa attraverso il legame maestro-discepoli. Sempre nell’Hathayogapradīpikā, Svātmārāma, all’inizio della sua esposizione, inneggia la propria sampradayā paramparā, ovvero, tutti i nāth a cominciare da Adināth, Śiva, che ha trasmesso questa conoscenza dall’inizio, senza i quali Svātmārāma stesso, quindi noi, non avremmo potuto conoscere l’hathayoga (Hathayogapradīpikā I 1-8). Tra i Daśanāmī Samnyāsī, guru e svāmin tecnicamente coincidono, per essere guru ed avere dei discepoli, devi prima essere onorato del titolo di svāmi ovvero, “unito al sé, all’ātman”, nel senso di realizzato, illuminato, in uno dei dieci ordini tradizionali, soltanto uno svāmi può conferire questo titolo ad un membro dell’ordine e soltanto uno svāmi può conferire dīkshā, l’iniziazione, possibile attraverso l’azione, elaborata poi dal tantrismo, conosciuta come śaktipāta, essendo dīkshā un aspetto fondamentale anche nel tantrismo. Dīkshā nei Daśanāmī Samnyāsī è, tecnicamente, considerata essenziale per praticare correttamente il kriyāyoga, senza la quale la sadhāna è infruttuosa, inconcludente (Original Kriya Yoga, Guida sul sentiero per la Salvezza, Volume I-Pratiche essenziali, Rangin Mukherjee, 2017), dīksha e śaktipāta possono avvenire anche attraverso metodi non propriamente convenzionali che trascendono il piano fisico denso (sthūla) ma la figura del guru rimane comunque centrale in tutta la tradizione yoga e per estensione, nelle tradizioni vedica e tantrica, ovvero, in tutto il sanātanadharma, “tad viddhi pranipātena paripraśnena sevayā upadekshyanti te jnānam jnāninas tattva-darśinah” Bhagavadgītā IV 34, ossia, “devi sapere che se ti avvicinerai con sottomissione spirituale e con la giusta attitudine devozionale alle anime realizzate, servendole, esse possono trasmetterti la vera sapienza perché loro hanno visto la verità”. Per una trattazione, sull’argomento, rigorosa attraverso le fonti e la letteratura specialistica: Guru, Il fondamento della civiltà dell’India, Antonio Rigopoulos, Carocci editore S.p.A., Roma, 2009.

 

Concludendo questa narrazione, dunque, lo yoga è un sistema che è inserito, storicamente e filosoficamente, all’interno delle tradizioni, vedica e tantrica, con le loro fonti scritte, i loro principali sistemi e le loro dīkshā sampradāya paramparā, senza cui non è possibile comprenderlo nella sua essenza, se non altro, riducendo i confini agli yoga della tradizione conosciuti come: ashtāngayoga/rājayoga, hathayoga, layayoga, mantrayoga e kriyāyoga ma, per estensione, aventi lo stesso fine ultimo e gli evidenti legami con yama e niyama del sistema di Patanjali (v. sopra), anche karmayoga, jnānayoga e bhaktiyoga. Approfondendo, dunque, le fonti originali e autentiche sullo yoga e la cornice storica, filosofica e metafisica, in cui si è sviluppato, comprenderemo, forse, che lo yoga, quello vero, non è esattamente o almeno non sempre, quello che viene fatto passare per tale qui in Occidente, nelle sue numerose frammentazioni e che stiamo perdendo tanto della sua storia, della sua struttura, della sua filosofia originale ma, soprattutto, cosa più importante, del fine per cui si è formato.

Om namah Śivāya

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