Gli yoga della tradizione: rājayoga, hathayoga, layayoga e mantrayoga. Capitolo 2

Nell’epoca del “contattismo” dilagante, nei tempi della variegata corrente New Age moderna e post-moderna, siamo di fronte, senza esagerare, alla più antica, documentata e potente forma di medianità spirituale, le cui rivelazioni vengono utilizzate ancora oggi nel mantrayoga, layayoga, hathayoga, rājayoga e nel tantrismo, all’interno di alcuni rituali tantrici nella forma di specifici mantra, come ci ricorda un altro accademico, André Padoux (Tantra, André Padoux, a cura di Raffaele Torella, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 2011), il quale evidenzia come la componente fondamentale di tutto il tantrismo, cioè il mantraśāstra derivi in buona parte dai mantra vedici, del resto sarebbe sufficiente ricordare che il principale mantra śaiva e tantrico Om namah Śivāya compare per la prima volta accertata nello Yajurveda sia Śuklapaksha che Krishnapaksha (senza l’Omkara) e siamo intorno, approssimativamente, al XII-X secolo a.C. In questi tempi dove sembra tutto facilmente accessibile ed appetibile e dove di conseguenza confondersi è facile, sarebbe utile ricordare che lo yoga tradizionale si inserisce in un sistema di conoscenze antiche delle quali, attualmente, nessuno può attestarne l’origine in modo conclusivo e definitivo come anche gli accademici, in riferimento, ad esempio, al sigillo, definito di Paśupati o di proto-Śiva di Mohenjo-Daro (M-304, 2350-2000 a.C.) e al suo collegamento con lo yoga (che ne sposterebbe l’antichità di migliaia di anni), nonché con Śiva stesso e con l’induismo più in generale, sono costretti ad ammettere (The Origins of Yoga and Tantra, Indic Religions to the Thirteenth Century, Geoffrey Samuel, Cambridge University Press, 2008), in quanto esistono anche su questo interpretazioni divergenti, alcune critiche rispetto al legame di suddetto sigillo con lo yoga (The Origins of Yoga and Tantra, Indic Religions to the Thirteenth Century, Geoffrey Samuel, Cambridge University Press, 2008) ed altre che invece propendono maggiormente verso una interpretazione yoga della postura raffigurata dal sigillo (The Shape of Ancient Thought: Comparative Studies in Greek and Indian Philosophies, Thomas McEvilley, 2002. The Indus Valley Origin of a Yoga Practice, Yan Y. Dhyansky, Artibus Asiae 48, nos. 1–2, 1987). Attualmente esiste lo “yoga” per ogni cosa, insieme alla, sempre più diffusa, presunta capacità di contattare dimensioni “ultraterrene” e ricevere informazioni da entità disincarnate su “cakra”’ “kundalinī”, “karma”, ecc…In base a questo diventa, parallelamente, sempre più imprescindibile per coloro che aspirano ad essere tecnici del settore, ricordare cos’è realmente lo yoga, per andare in controtendenza o meglio, seguire la tendenza giusta che dimostri come anche gli insegnanti yoga che hanno l’onore e il piacere, ma anche la responsabilità, di trasmettere ai propri allievi le pratiche corrette, conseguenza di un sistema teorico che attinga dalle fonti tradizionali di quest’antica disciplina, devono e possono approfondire lo studio sistematico attraverso fonti autentiche, messe a disposizione anche dal mondo accademico, per conoscere approfonditamente le implicazioni passate ed attuali di ciò che dovrebbero insegnare, lacuna conoscitiva nei percorsi di formazione per insegnanti yoga, peraltro, evidenziata proprio anche da alcuni accademici (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019 e Cultura dell’India e filosofia dello Yoga, Stefano Piano, Magnanelli Edizioni, 2019). Come suddetto, tradizionalmente esiste un solo sistema che possa essere definito yoga, inteso come complesso integrato e funzionale di tecniche specifiche che includono posture definite da eseguire con il corpo (āsana), tecniche specifiche di respirazione per il controllo del prāna (prānāyāma) che hanno come effetto quello di favorire il raccoglimento interiore (pratyāhāra), azioni di fissaggio posturale per bloccare il prāna in determinati punti in corrispondenza dei cakra (bandha), tecniche specifiche di purificazione/stimolazione/risveglio dei cakra (mudrā) per indurre uno stato di concentrazione (dhāranā), requisito necessario per svelare la potenza (śakti) delle sillabe sacre (mantra) e dei diagrammi sacri (yantra), ovverosia il sistema dei quattro yoga: rājayoga, hathayoga, layayoga, mantrayoga e dove mantrayoga, layayoga e hathayoga, nella loro prima storica determinazione fanno riferimento a rājayoga, altrimenti definito come ashtāngayoga, ossia, “lo yoga dalle otto membra” anche, “lo yoga dagli otto mezzi, stadi o fasi”, il quale è conosciuto anche come “yoga regale” (rājayoga) e sistematizzato nello yogadarśana, “la visione, la prospettiva tradizionale dello yoga”, perché il sistema di Patanjali (basato sui 196 aforismi del testo Yogasūtra), così definito anche da Haribhadra, Śankara e Madhava, è storicamente il sistema yoga (da intendere come il suddetto sistema integrato di tecniche) più antico, con uno scarto rispetto agli altri tre yoga (mantrayoga, layayoga e hathayoga) di almeno mille anni. La prima sistematizzazione storicamente documentata di più yoga definiti, da intendere come sistema integrato di tecniche specifiche (vedi sopra) risale al XIII secolo d.C. con il Dattatreyayogaśāstra (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019), mentre i primi riferimenti all’ashtānga yoga al II secolo a.C. – IV secolo d.C., poi ripreso nella componente pratica (āsana, prānāyāma, ecc.) in un intero tantra, il terzo, del testo tantrico tamil śaivasiddhānta Tirumantiram (V secolo d.C. – XIV secolo d.C.) che più avanti approfondiremo. Vi è poi da ricordare un intero capitolo (adhyāya) della Bhagavadgītā (III secolo a.C. – I secolo d.C., testo fondamentale di tutta la filosofia induista, nonché, come abbiamo visto, del vedāntadarśana), il sesto adhyāya, titolato Dhyāna-yogah, un capitolo di 47 versi, dedicato interamente a quello che appunto è definito dhyānayoga o yoga della meditazione che Śankara (788-821), nel primo e principale commentario alla Bhagavadgītā, Bhagavadgītābhāṣya, definisce quello più vicino alla giusta conoscenza (Bhagavadgītā, con il commento di Śrī Śankāracārya, Traduzione di Giampiero Marano, Luni Editrice-Milano, 1997), è utile ricordare che il commento di Śankara ha definito, nel VII secolo d.C., la vulgata della Bhagavadgītā che sino ai giorni nostri è rimasta invariata (Cultura dell’India e filosofia dello yoga, Stefano Piano, Magnanelli Edizioni, 2019). Dicevamo, nel sesto adhyāya, la Bhagavadgītā descrive il dhyānayoga (yoga della meditazione), per distinguerlo dagli altri yoga sempre descritti della Bhagavadgītā, in particolare quelle che sono poi state definite le tre vie o trimārga; karmamārga, jnānamārga e bhaktimārga (Cultura dell’India e filosofia dello yoga, Stefano Piano, Magnanelli Edizioni, 2019) in riferimento a karmayoga (yoga dell’azione), jnānayoga (yoga della conoscenza) e bhaktiyoga (yoga della devozione), yoga nei quali non viene fatto utilizzo di un complesso integrato di tecniche quali: āsana, prānāyāma, bandha, mudrā, mantra e kriyā, utilizzato dal sistema dei quattro yoga suddetti, sebbene nel bhaktimārga, si possa utilizzare l’uso di mantra, da una prospettiva devozionale, attraverso il japa oppure cantati (bhajan). Infatti, è proprio nel capitolo dedicato al dhyānayoga, nel sesto adhyāya, che vi è la descrizione di una importante mudrā (Bhagavadgītā VI 13), mudrā poi assimilata nei testi tradizionali dell’hathayoga 1300-1400 anni dopo, secondo la datazione più recente, circa 1700 anni dopo, secondo la datazione più antica, questa mudrā sarà conosciuta, nei testi successivi, come agochari mudrā o nasikagra drishti. Inoltre, non meno degno di nota è il termine dhyāna che, come sappiamo, è il settimo anga dell’ashtāngayoga, si evince che per la Bhagavadgītā si può parlare, in senso tecnico, di meditazione (dhyāna) solo per un unico sistema di yoga, lo yoga della meditazione, appunto, caratterizzato, almeno per la Bhagavadgītā, da una mudrā che diverrà importante in tutto il sistema hathayoga, che altro non è che una scala luminosa per colui che desidera raggiungere il sublime rājayoga (Hathayogapradīpikā I 1). D’altra parte la Bhagavadgītā è costituita da 18 letture (adhyāya) corrispondenti ai capitoli 2542 del sesto libro (parvan), il “Libro di Bhīshma”, Bhīshmaparvan, del grande poema epico (Itihāsa) Mahābhārata, di questi 18 adhyāya, il terzo è dedicato al karmayoga, il quarto e il settimo al jnānayoga e il dodicesimo al bhaktiyoga, l’unico yoga definito “yoga della meditazione” (dhyānayoga), in cui viene utilizzato specificatamente il settimo anga dell’ashtāngayoga, anticamera dell’ultimo ed ottavo anga, il samādhi e in cui viene descritta la fondamentale tecnica hathayoga (nasikagra drishti o agochari mudrā), è quello descritto nel sesto adhyāya. Sebbene già a cominciare, almeno, dall’Atharvaveda (X secolo a.C.) con i cosiddetti vrātya (v. dopo), una categoria di asceti, vi siano indicatori rispetto alla pratica delle posture meditative e della ritenzione del respiro (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019), indizi più definiti che precorreranno le tecniche consolidate di hathayoga, si ritrovano in alcune Upanishad antiche come, ad esempio, la già citata Śvetāśvatara (IV-II secolo a.C.) del Krishnapaksha Yajurveda (Upanishad tra le più recenti di quelle antiche), nella quale si accenna al prānāyāma, mentre l’autore parla di yoga (II 8-13), tutti gli yoga tecnici esistono per definizione storica e filosofica, in funzione del rājayoga, in altri termini sono suoi aspetti sussidiari. In questa dispensa ideata per un corso di formazione per istruttori in yoga tradizionale (rājayoga, hathayoga, layayoga e mantrayoga) desidero spendere due parole rispetto al settore dello yoga e di come, purtroppo, questa disciplina antica, millenaria, ha subito e continua a subire delle distorsioni sostanziali, attuate più o meno consapevolmente, come conseguenza di una importante disinformazione per lo più tipicamente occidentale che va a modificare e ad adombrare quello che è lo scopo originario, ultimo e primario, di questo millenario, consolidato e collaudato sistema che, partendo da Patanjali (considerato, dalla tradizione, avatār di Śesha, Śeshanāga o Ādi Śesha, il serpente antico che riposa sull’oceano cosmico, uno dei più antichi esseri generati, il re dei nāga, ossia, i serpenti mitologici della creazione) storicamente vissuto tra i primi secoli prima di Cristo e i primi secoli dell’era volgare, si cementa attraverso la tradizione vedica e tantrica, in un arco di tempo che va dai vrātya (v. sopra e successivamente) nel X secolo a.C. al VIII/VI secolo a.C. con il Jaiminīya Upanishad Brāhmana (Sāmaveda) e i suoi riferimenti alla ripetizione dei mantra e al controllo del respiro (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019), passando per testi come la Śvetāśvatara Upanishad (Krishnapaksha Yajurveda), intorno al IV-II secolo a.C., sino ai riferimenti al dhyānayoga e all’aghochari mudrā della Bhagavadgītā (III secolo a.C – I secolo d.C.), allo Yogasūtra (II secolo a.C. – IV secolo d.C.), giungendo all’importante riforma vedantica śankariana del VII-VIII secolo d.C. e alla, più recente, sistematizzazione dell’hathayoga, il cui esordio, storicamente documentato, è attestato dal testo Dattatreyayogaśāstra del XIII secolo d.C., per concludersi intorno al XVIII secolo d.C. con il più recente testo del ciclo hathayoga, la Gherandasamhitā. Tutto questo trasversalmente al fenomeno tantrico che come una costante ne fa emergere in maniera sempre più definita i contorni, in un processo progressivo che inizia da circa il V secolo d.C., con le prime testimonianze accertate sull’esistenza della tradizione tantrica (Tantra, André Padoux, a cura di Raffaele Torella, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 2011), attraversando il ramo meridionale del tantrismo, lo śaivasiddhānta, con il Tirumantiram (V secolo d.C. – XIV secolo d.C., a seconda della datazione attribuita), del quale, come vedremo, il terzo tantra o sezione, è interamente dedicato all’ashtāngayoga), attraverso Tantra śaiva del lignaggio dei kula come Kaulajnānanirnayatantra e il Kubjikāmatatantra datati al VI-X secolo d.C. (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019) o rispettivamente al IX-XI secolo d.C. e al XI secolo d.C. (I Cakra, Le ruote d’energia nella tradizione indiana, Alberto Pelissero, Magnanelli Edizioni, 2016), sino ad arrivare al XVI secolo, circa, con l’avvento dello Shatcakranirūpana. Lo Shatcakranirūpana è il sesto capitolo di un testo tantrico più ampio conosciuto come Śrī Tattvacintāmani, attribuito a Pūrnānanda Giri (I Cakra, Le ruote d’energia nella tradizione indiana, Alberto Pelissero, Magnanelli Edizioni, 2016), non a caso, come vedremo, un membro di uno dei Daśanāmī Samnyāsī, quanto detto fa chiaramente emergere la stretta interconnessione tra tradizione vedica, tradizione tantrica e yoga. Lo Shatcakranirūpana è il testo più famoso che descrive i cakra, descrizione che è stata accolta dalla maggioranza di tutte le correnti dello yoga tradizionale, considerato per questo la vulgata sui cakra, infatti i testi divulgativi occidentali sui cakra si basano, pressoché in toto, sulla simbologia descritta in questo testo, simbologia poi ripresa ed ulteriormente consolidata da testi della tradizione come Śivasamhitā, dove al capitolo V (62-168) vengono descritti, ad uno ad uno, i sette cakra (mūlādhāra, dal v. 62-74, svādhishthāna, dal v. 75-78, manipura, dal v. 79-82, anāhata, dal v. 83-89, viśuddha /viśuddhi, dal v. 90-95, ājnā, dal v. 96-101, sahasrāra, dal v. 102-131). Queste sono le basi dalle quali attingeranno tutti i testi divulgativi (seri) sui cakra, su kundalinī, ecc… come quelli di un importante rappresentante dei Daśanāmī, Satyānanda Sarasvatī. Tutto questo, è bene sottolinearlo, non ha niente a che fare con il relativamente recente movimento sub-culturale strutturatosi alla fine del XX secolo in Occidente, denominato New Age, che ha attinto e continua ad attingere a piene mani, attraverso i sottosistemi moderni che da esso si sono sviluppati (come il, già menzionato, diffuso fenomeno del contattismo), da concetti metafisici appartenenti allo yoga e per estensione alla tradizione del sanatānadharma, come, appunto, cakra, kundalinī, nādī, loka, kośa, karma, samsāra, ecc…, distorcendone tristemente, oltre che inutilmente, il senso e il significato solo per, letterale, mancanza di conoscenza da parte dei divulgatori sia che siano incarnati o, come ritengono alcuni tra essi, entità disincarnate che trasmettono attraverso intermediari. Entità, perlopiù, date le inesattezze e le scorrettezze che promulgano, come ci illumina la metafisica induista stessa rispetto alla condizione dei disincarnati, ignoranti, nel senso che ignorano, cioè non sanno, in quanto ancora condizionate dalla potenza di māyā. La condizione di disincarnato, infatti, non è garanzia di saggezza o conoscenza, nel caso in cui, chiaramente, di contatti reali si trattino e non sia tutto frutto dell’ahamkāra e del manas dell’individuo che sostiene di fare da intermediario. In sostanza, in questi casi di palese distorsione di certe conoscenze o è ignorante chi è incarnato oppure chi è disincarnato o, ahimè, entrambi. Vi sono diversi luoghi comuni che spesso si sentono girare su internet, sui social ma anche altrove che rappresentano dei cliché senza alcun fondamento conoscitivo della materia ma, purtroppo, non per questo meno insidiosi o difficili da sradicare, essendo profondamente radicati, soprattutto, ripeto, nell’uomo occidentale. Ad esempio, quando viene affermato che gli yoga sono tanti…non è vero, come abbiamo visto, la tradizione dalla quale deriva ogni conoscenza teorico-pratica sullo yoga ci dice chiaramente che lo yoga, inteso come sistema tecnico teorico-pratico è uno, eventualmente suddiviso in quattro componenti (rājayoga, hathayoga, layayoga e mantrayoga). Inoltre, il fine ultimo di ogni yoga, anche considerando gli yoga cosiddetti della Bhagavadgīta come bhaktiyoga, karmayoga e jnānayoga, è uno e lo stesso, cioè la riunificazione con il Divino immanente e trascendente, da realizzare in questa vita, durante l’incarnazione, obiettivo che coincide totalmente con il rājayoga, il cui fine è conseguire il samādhi o assorbimento nel Divino e questo è lo scopo supremo che ci è stato trasmesso, insieme alle tecniche per raggiungerlo da coloro che hanno permesso a questa disciplina di arrivare fino ai giorni d’oggi inalterata, i grandi nāth/nātha, i siddha (siddhar in tamil), gli svāmin, i veri guru, gli acārya, ecc. Non dobbiamo, infatti, dimenticare che stiamo disquisendo di una disciplina le cui radici potrebbero provenire da una tradizione antica di circa 4800 anni, per coloro che ravvedono legami con lo yoga, ad esempio, nel sigillo, comunemente conosciuto come proto-Śiva o di Paśupati della Civiltà della Valle dell’Indo (v. sopra) che raffigura un’entità non ben definita in gorakhshāsana, ovvero, la postura di Gorakhnāth (considerato dalla tradizione, avatār di Śiva e iniziatore della dīkshā sampradāya paramparā dei nāth, i Gorakhnāthī, della quale lo stesso Svātmārāma, autore del testo Hathayogapradīpikā è parte), āsana, senza dubbio, complesso e di difficile esecuzione anche per i più esperti e non una semplice e naturale posizione a gambe incrociate, eventualmente conosciuta nello yoga come sukhāsana, letteralmente: “posizione piacevole, confortevole”, questa si, postura naturale adatta ai principianti (The Indus Valley Origin of a Yoga Practice, Yan Y. Dhyansky, Artibus Asiae 48, nos. 1–2, 1987. The Shape of Ancient Thought: Comparative Studies in Greek and Indian Philosophies, Thomas McEvilley, 2002. The Origins of Yoga and Tantra, Indic Religions to the Thirteenth Century, Geoffrey Samuel, Cambridge University Press, 2008). Lo yoga sarebbe una tradizione antica di circa 3700 anni per coloro che ravvedono nel concetto metafisico di tapas del Rigveda (XVII secolo a.C. – X secolo a.C.) un principio fondamentale di questo sistema (del resto il tapas nell’ashtāngayoga è uno dei tre principi del kriyāyoga, Yogasūtra II 1, come uno dei cinque niyama, Yogasūtra II 32), tradizione antica di circa 3000 anni, per coloro che vedono l’origine dei primi yogin nei vrātya, asceti, che sebbene già menzionati nel Rigveda, acquisiscono nell’Atharvaveda (X secolo a.C.) una connotazione mistica e spirituale, ai quali vengono associate anche alcune pratiche respiratorie (anticipatrici del prānāyāma?), (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019). I testi esegetici vedici, cioè i Brāhmana, associano il dio Rudra, l’antico nome vedico di Śiva, ai vrātya, rappresentandoli come degli asceti, dei guaritori e come custodi della verità, d’altra parte anche il loro Signore, Śiva, nella sua forma antica di Rudra è considerato nei Veda e nei Brāhmana il custode dell’ordine sacro, Vratapā (termine strettamente interconnesso al termine vrātya) e del luogo sacro, Vāstoshpati (La presenza di Śiva, Stella Kramrisch, Adelphi Edizioni S.P.A. Milano, 1999). Ecco che torna la costante Śiva, definito, successivamente, Signore dello yoga (Yogeśvara) e degli yogin (Yogiśvara) che nella veste del suo precursore più antico (Rudra) viene identificato anche come riferimento per gli asceti vedici (vrātya) e per l’ascetismo in senso lato, aspetti fortemente interconnessi con il concetto vedico di tapas, l’ardore interiore e spirituale, termine che già nei Veda viene associato all’atto creativo, alla volontà creatrice, successivamente associato al prodotto principale, ma anche causa efficiente, della meditazione spirituale sul sé superiore, ātman, che è l’eterno sé, reggitore di tutto, delle Upanishad. Il tapas diventerà poi, come suddetto, nello Yogasūtra, uno dei tre aspetti fondamentali, insieme ad Īśvarapranidhāna e svādhyāya, che suggellano la definizione di yoga nella pratica (“tapah svādhyāya Īśvarapranidhānāni kriyāyogah” Yogasūtra II 1), versetto che gli svāmin che hanno diffuso, anche in Occidente, il sistema del kriyāyoga, hanno mutuato, per legittimare la forte connessione del kriyāyoga alla conoscenza antica e tradizionale rappresentata dall’ashtānga/rājayoga esattamente come avevano già fatto testi quali il Dattātreyayogaśāstra. Il concetto di tapas collega l’ashtāngayoga al sistema vedico e probabilmente ai vrātya asceti devoti di Rudra (Vratapā, Vāstoshpati, v. sopra), riferimento, questo, successivamente ripreso ed elaborato dalla tradizione nāth e siddha dell’India settentrionale e quella dei siddhar dell’India meridionale, infatti, anche le due tradizioni, settentrionale e meridionale dei siddha/siddhar fanno entrambe riferimento a Śiva/Rudra/Adināth (il Signore primordiale). In effetti è Adināth o Śiva, il primo tra i “signori” che ha dato origine alle sampradāya sia settentrionale, ossia, i nāth, i siddha e l’ordine tantrico dei kanphata yogin attraverso, una sua incarnazione come Gorakhnāth e sia meridionale, ovvero, i siddhar e il conseguente sistema tantrico dello śaivasiddhānta come anche, simbolicamente, in tutte le direzioni, se non altro dell’India, a mezzo dei quattro math, monasteri, situati nei quattro punti cardinali, punti di forza focali del lignaggio dei Daśanāmī Samnyāsī, entrambi istituiti da Śankara altra incarnazione di Śiva. Impossibile non notare che il termine Adināth (il primo dei signori o il primo signore) ricorda molto il primo dei maestri, descritto nello Yogasūtra, Īśvara (Signore o Dio), d’altra parte, è altresì vero che il termine Īśvara, nell’ambito della trimūrti (le tre principali forme del Divino, Brahmā, Vishnu e Śiva), soprattutto nell’ambito della smriti, Purāna, Āgama, ecc…viene utilizzato per indicare elettivamente Śiva (vedere a questo proposito Īśvaragītā o “canto di Śiva” appartenente al Kūrma Purāna), in uno dei testi principali dell’hathayoga, lo Śivasamhitā, Īśvara è il termine utilizzato per indicare Śiva. Ancora, c’è chi ritiene che lo yoga, sempre inteso come complesso sistematico di tecniche pratiche specifiche (āsana, prānāyāma, bandha, mudrā, ecc…), abbia cominciato a svilupparsi o consolidarsi intorno al 500 a.C., con l’avvento dei cosiddetti śramana, nell’antico regno indiano di Magadha (The Origins of Yoga and Tantra, Indic Religions to the Thirteenth Century, Geoffrey Samuel, Cambridge University Press, 2008) e che sarebbe quindi, comunque, antico di circa 2500 anni. Ora, a onor del vero, sebbene una delle correnti accademiche maggioritarie identifichi gli śramana come una tradizione distinta, separata dalla tradizione vedica, quindi brahmanica dunque nāstika (vedere sopra per il significato di āstika e nāstika) abbastanza variegata, costituita da buddhisti, jainisti, ājīvika e chārvāka o lokāyata, vi sono anche, come per il sigillo di Paśupati (v. sopra), interpretazioni discordanti che non vanno esattamente nella direzione della suddetta corrente (The Asrama System: The History and Hermeneutics of a Religious Institution, Patrick Olivelle, Oxford University Press, 1993. The Origin and Development of Early Indian Contemplative Practices, Edward Fitzpatrick Crangle, Harrassowitz Verlag, 1994). Secondo Olivelle, la tradizione originale degli śramana era parte integrante di quella vedica, anche perché il concetto di śramana esisteva già nella prima letteratura brahmanica, d’altra parte, uno dei primi usi attestati del termine “śramana” è in una delle Upanishad più antiche, ossia, la Brihadāranyaka Upanishad (circa VIII-VII secolo a.C.), Upanishad annessa allo Śatapatha Brāhmana dello Śuklapaksha Yajurveda, almeno 200 anni prima della formazione accertata del movimento degli śramana, un testo certamente appartenente alla tradizione vedica. Un altro uso manifesto del termine “śramana”, ancora più anteriore, si trova nel Taittirīya Āranyaka, annesso al Krishnapaksha Yajurveda (circa XII-X a.C.), dove tale termine viene associato agli antichi rishi, con “śramana rishi” (The Asrama System: The History and Hermeneutics of a Religious Institution, Patrick Olivelle, Oxford University Press, 1993. The Origin and Development of Early Indian Contemplative Practices, Edward Fitzpatrick Crangle, Harrassowitz Verlag, 1994), i veggenti vedici ai quali fu rivelata la śruti, raccolta nei Veda. Sempre con Olivelle (The Asrama System: The History and Hermeneutics of a Religious Institution, Patrick Olivelle, Oxford University Press, 1993), in alcuni testi del III secolo a.C., durante il regno di Aśoka, i brahmana e gli śramana non risultano in opposizione e neanche distinti, la distinzione potrebbe essere dovuta, secondo l’accademico, dall’appropriazione del termine “śramana” da parte delle tradizioni nāstika come il buddhismo e il jainismo, ad ogni modo anche qui, come per il sigillo di Paśupati ed altre questioni, non vi è niente di conclusivo e di definitivo. Ciò che, invece, può esserci di abbastanza conclusivo è che noi uomini e donne occidentali, tornando al ragionamento iniziale, quando dialoghiamo di yoga, dovremmo essere consapevoli che, da una prospettiva accademica, stiamo trattando di un sistema che anche nella corrente che ne ravvede l’origine con il movimento degli śramana, lo yoga avrebbe comunque cominciato a strutturarsi intorno al 500 a.C., dunque, circa 2500 anni fa, un sistema non proprio recente e sicuramente più antico di tutte le correnti sub-culturali, più o meno recenti, che originano anche dalla teosofia di H. P. Blavatsky (1831-1891), per sfociare poi nel movimento sub-culturale, moderno e post-moderno, conosciuto, appunto, all’ingrosso come New Age e chiaramente più antico rispetto ai numerosi “yoga” occidentali. Altro aspetto importante, concerne l’altra grande rivelazione induista, oltre quella vedica, quella tantrica, che è visceralmente interconnessa, come abbiamo visto, allo yoga e che ha delle evidenti connessioni con quella vedica sia nella componente ritualistica, il kriyāpada (parte ritualistica) dei Tantra, dal quale deriva il rituale tantrico della pūjā e sia nella componente mantrica, il mantraśāstra, sovente utilizzato come sinonimo di tantrismo e strettamente interrelato all’aspetto ritualistico, entrambe le componenti, ritualistica e mantrica, derivano in parte dalla sezione karmakānda dei Veda, ovvero, Samhitā e Brāhmana (Tantra, André Padoux, A cura di Raffaele Torella, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 2011), altro aspetto fondamentale che Padoux sottolinea è la costante tantrismo/yoga (Tantra, André Padoux, A cura di Raffaele Torella, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 2011). L’utilizzo dei mantra, nel tantra come nello yoga, appartiene a quell’unica tradizione che con riferimento all’inizio della nostra narrazione era unanimemente conosciuta, prima della colonizzazione inglese, come sanātanadharma e che è giunta, mantenendo alcune strutture di base, fino ai giorni nostri. Ancora oggi, per fare un altro esempio, viene praticato in India lo yajna, il rituale del fuoco, retaggio dell’antico rituale vedico agnihotra e anche qui parliamo di rituali che, tra le altre cose, utilizzano gli stessi mantra da migliaia di anni, cosa che non si può dire di nessun altra tradizione consolidata che sia ancora attiva nel modernismo e nel post-modernismo ed è, come abbiamo visto, proprio all’interno di questa antica tradizione di natura trascendentale che si sono sviluppate delle scuole, dei sistemi filosofici e pratici che vanno avanti, attraverso lignaggi specifici (dīkshā sampradāya paramparā) da tempo e che attingono tutti quanti dai Veda, nonché da, almeno mille-millecinquecento anni anche dai Tantra, che sono i testi delle due rivelazioni fondamentali dell’induismo, considerati, appunto, di matrice divina, lo yoga stesso attinge tradizionalmente dai Veda e si sviluppa sistematicamente attraverso i Tantra ed il tantrismo, più in generale. Tornando allo yoga, che è la parte centrale di questo trattato, noi abbiamo importato in Occidente questa antico sistema, come abbiamo visto, strutturato in diversi sottosistemi in forte interdipendenza tra loro ma senza anche il diritto, di cambiarlo, deformarlo, banalizzarlo e per certi versi, peggiorarlo, in alcuni casi è difficile continuare a chiamare certi prodotti moderni ancora con il nome di yoga. Certamente, non tutti fanno questo intenzionalmente e consapevolmente, quando non c’è intenzionalità, il vero problema è la disinformazione, motivo per cui, come suggerisco sempre ai miei corsisti è sempre utile, oltre che legittimo, approfondire la matrice originale dell’insegnamento che viene impartito e diffuso, per sapere da cosa attinge quell’insegnamento e se ciò che stiamo facendo è realmente yoga o se non altro sapere quale “tipo” di yoga è, e per questo le fonti originali restano strumenti indispensabili. Storicamente, quando noi pronunciamo il termine “yoga” dobbiamo essere consapevoli di pronunciare un termine sanscrito che è una lingua indoeuropea la cui esistenza è stata testimoniata con il sanscrito vedico in un arco di tempo che va dal XV al X secolo a.C., per arrivare alla sua forma classica intorno al V secolo a.C.. Il sanscrito è una delle lingue più antiche, nonché una lingua ufficiale dell’India, in sostanza, stiamo pronunciando un termine sanscrito, nello specifico induista, che deriva dalla radice sanscrita “yuj” con il significato di “unire” e a partire dal significato che questa radice sanscrita sottintende, noi abbiamo un indizio importante di quello che lo yoga rappresenta realmente e proprio partendo da questo principio dobbiamo comprenderne lo scopo finale che è quello di riunificare il jīva (il principio coscienziale incarnato) con l’ātman o purusha e comprendere come questa riunificazione si esprima, tecnicamente, secondo la tradizione yoga più antica, attraverso il samādhi, altro termine sanscrito, anche questo, con il significato di “integrare insieme, unire insieme a”. In questo senso, yoga e samādhi sono sinonimi, nel senso che non esiste rājayoga senza samādhi o samādhi senza rājayoga anche per questo definito yoga regale (rājayoga), in quanto, come sostengono testi quali, per citarne alcuni, Dattātreyayogaśāstra (Le radici dello Yoga, James Mallinson e Mark Singleton, Ubaldini Editore – Roma, 2019), Śivasamhitā e Hathayogapradīpikā, rājayoga è considerato lo yoga migliore, così come il samādhi è il fine ultimo di tutto lo yoga, l’ultimo anga o “membra” dell’ashtāngayoga, tecnicamente non vi è l’uno senza l’altro, samādhi è ciò che rende uno yoga qualsiasi, rājayoga. È utile, anche, rispetto al samādhi evidenziare la prospettiva teista dell’ashtāngayoga, di come Patanjali che ricordiamo essere il sistematizzatore dello yogadarśana o sistema tradizionale (ortodosso, āstika) dello yoga, essendone il primo sistematizzatore nonché, come sappiamo, autore del primo testo storicamente documentato sullo yoga come sistema definito, ci spiega come il samādhi è definitivo, perfetto e ha successo con l’abbandono al Divino, nella forma di Īśvara: “samādhisiddhih ĪśvarapranidhānātYogasūtra II 45. Ricapitolando, lo yoga si sviluppa all’interno di una metafisica specifica che è quella induista, la quale attinge sia dalla śruti, la rivelazione vedica, ascoltata direttamente dai rishi, i veggenti dei tempi antichi, proveniente dal Divino e racchiusa nel Veda, poi suddiviso in quattro, Rigveda, Sāmaveda, Yajurveda, Atharvaveda e sia dalla tradizione tantrica dell’hathayoga, dal ramo tantrico meridionale dello śaivasiddhānta e sia dai vari Tantra, in parte di scuola kula, in parte Daśanāmī che ci parlano dei cakra, delle nādī, di kundalinī, ecc… Secondo la tradizione vedica, come già detto, i Veda contengono la conoscenza trascendentale originaria, ascoltata dagli antichi veggenti nella forma di pārashabda, il suono supremo proveniente dal Divino, contenuto nei primi mantra delle samhitā vediche, la prima parte (kānda) dei Veda, successivamente, dalle due parti costituenti i Veda (karmakānda e jnānakānda), deriveranno i sei sistemi filosofici teorico-pratici conosciuti come darśana, a loro vota suddivisi a coppie che, riepilogando, sono: purvamīmāmsā (“prima riflessione, indagine”, la dottrina ritualista) e uttaramīmāmsā (“seconda riflessione, indagine”, la dottrina filosofica), sāmkhya (“enumerazione, indagine metafisica”, la dottrina metafisica) e yoga (“unione”, dottrina teorico-pratica di realizzazione spirituale, di riunificazione con il sé superiore, ātman o purusha), vaiśeshika (“differenziazione”, la dottrina distintiva, atomistica) e nyāya (“metodo”, la dottrina della logica). La metafisica induista o sāmkhya (il termine sanscrito “sāmkhya”, generalmente tradotto come: “enumerazione”, in relazione ai suoi 24 principi o tattva, escluso il purusha, significa anche “riflessione, indagine, analisi metafisica”), espressa dal darśana, come sappiamo, elettivamente in relazione con lo yoga e di cui ne definisce il contesto teorico, suddivide, in estrema sintesi, la struttura umana in purusha, l’ātman vedico delle Upanishad, anima o spirito, nel senso di coscienza primaria che trascende la creazione fenomenica (prakriti) pur mantenendo attiva la percezione all’interno della manifestazione attraverso le sue guaine (kosha) e nel cosiddetto jīva, la personalità incarnata che comincia a manifestarsi con buddhi, intuizione spirituale o intelletto divino (mahat), il secondo tattva qualificato dalla potenza creatrice dell’illusione (māyāśakti, la prakriti dinamizzata dai triguna, le tre qualità materiali: sattva, rajas e tamas) che si manifesta prima di ahamkāra, il sé inferiore o ego, il terzo tattva. Ahamkāra o “modificazione” dell’”io sono”, l’ego incarnato in questa vita, soggetto al tempo (kāla) e allo spazio (deśa) non va confuso con purusha, il sé superiore, che esiste oltre Mūlaprakriti (il primo dei 24 tattva o principi della creazione), la materia radice dalla quale ogni forma (rūpa) deriva e che, dunque, non è soggetto né a kāla e né a deśa, è l’eterno testimone silenzioso dello Yogasūtra e delle Upanishad, il sé superiore, il veggente (drashtri), che in quanto trascendente la creazione stessa, per sua natura, è in grado di osservare la propria stessa mente (manas), nonché, appunto, il proprio ego (ahamkāra), come fanno gli organi della vista quando osservano un oggetto sensibile, perché purusha non è né ahamkāra e né manas i quali, eventualmente, sono suoi strumenti. La seconda modificazione di prakriti (primo dei 24 tattva, dopo il purusha) dopo la buddhi (secondo tattva), ossia, ahamkāra o ego (terzo tattva), è quella che entra in contatto con quelle dimensioni spazio-temporali definite mondi (loka) inferiori, nell’unico senso di maggiormente impregnati della qualità materiale più pesante ed oscura, tamas guna, ovvero; svarloka, bhūvarloka e bhūrloka, quest’ultimo, il loka (mondo) più tamasico, questo mondo o spazio (deśa) in questo tempo (kāla) conosciuto come Kaliyuga. Il purusha incarnato o jīva, l’essere vivente individuale in una specifica incarnazione, dimentica la sua fondamentale natura (svābhava) e conseguentemente la sua fondamentale legge interiore, o legge del sé (svādharma) e il motivo per cui si è incarnato, come spiega dettagliatamente la Bhagavadgīta e viene così totalmente assorbito dagli aspetti più terreni, materiali e grossolani (tamasici) dell’esistenza (sthūla), sotto l’influsso del potere di māyāśakti, descritto dal vedānta come “potere oscurante”, āvaranaśakti, il potere velante insito nella qualità (guna) oscura (tamas) della materia (prakriti), alla base di quello che il rājayoga definisce il primo e più importante dei panchakleśa, le cinque afflizioni, ossia, āvidya, oscurità/ignoranza spirituale e coscienziale che l’āyurveda, altro importante sistema vedico, chiama prajnāparādha, “errore” della saggezza (prajna) dovuto alla sconnessione o disallineamento, appunto, che si verifica tra il secondo dei 24 tattva del sāmkhya, buddhi o intuizione spirituale e il terzo tattva, ahamkāra, l’ego che non può ricordare, neanche se lo volesse, perché non è in grado di riflettere la luce (prakāśa) di cit o caitanya (coscienza), essenza del purusha o ātman (anima individuale), caratteristica, questa, della buddhi (essenziata di sattva guna, la qualità della materia più sottile connessa alla leggerezza e alla luminosità), quindi di assorbire la memoria spirituale proveniente dall’ātman. Il prajnāparādha è considerato nel sistema ayurvedico, la prima delle tre cause generali di malattia (roga), tutti questi sistemi; yoga, samkhyā, vedānta, vaiśeshika, āyurveda, ecc…, coerentemente al fatto che sono tutti sistemi vedici, sono costantemente in mutua relazione tra loro ed è impossibile comprenderne uno approfonditamente, senza attingere dagli altri. Lo yoga, tutti gli yoga della tradizione (ashtānga/rājayoga, hathayoga, layayoga, mantrayoga, karmayoga, jnānayoga, bhaktiyoga), hanno come unico scopo, quello di risvegliare il ricordo spirituale per poi ricreare quella connessione tra anima (purusha/ātman) e personalità (jīva), dapprima armonizzando ciò che è all’interno della manifestazione, nella sua componente più tamasica, ahamkāra e manas, con la componente più sattvica, buddhi, per poi trascendere i triguna stessi: “tatparam purushakhyāteh gunavaitrishnyam” Yogasūtra I 16, quando anche l’ultimo velo di māyā viene meno, che avviene nel momento in cui il frammento di caitanya (coscienza) incarnato, ossia, per dirlo con l’hathayoga, kundalinī, si ricongiunge alla sua fonte, purusha/ātman, in sahasrāracakra, con Paramśiva, lo Śiva supremo o Śivanirguna (che trascende i guna, ovvero qualsiasi qualità caratterizzante). Il processo a ritroso, rispetto a quello creativo, dell’incarnazione, scandito dai tattva del sāmkhyadarśana, si trova descritto sistematicamente nei dettagli, in quei testi sacri appartenenti alla tradizione dell’hathayoga e più generalmente tantrica, ovvero, in tutta la simbologia metafisica del sistema dei cakra, di kundalinī e di nādīcakra (il corpo pranico così definito nel testo Hathayogapradīpikā), il sistema costituito dalle nādī o canali sottili, attraverso cui fluisce il prāna o energia vitale, il vedantico prānamayakośa.

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