Triguna e costituzione individuale

L’Induismo è anche filosofia ed è la filosofia più antica ma quando si parla d’Induismo si parla della visione ortodossa della spiritualità, della religione, della filosofia e della cultura dell’India. Quindi si parla di quell’aspetto tradizionale conosciuto in India come āstika e quindi anche delle correnti filosofiche tradizionali definite appunto, con il nome di āstika ovvero ortodosse. Tutte queste correnti filosofiche hanno in comune la credenza nell’autorevolezza dei Veda che sono i testi fondamentali dell’Induismo, tradizionalmente considerati sacri. Sono come i quattro Vangeli per i cristiani, il Tanàkh per gli ebrei, il Corano per gli islamici, ecc…. I quattro Veda sono considerati i capisaldi, i fondamenti dell’Induismo tradizionale, nessun induista affermerebbe mai che i Veda non sono autorevoli, altrimenti non sarebbe un induista. Sarebbe come un ebreo che afferma che la Torah non è autorevole. Le visioni filosofiche, considerate ortodosse, sono quelle che considerano i Veda al centro di tutta la loro impalcatura ideologica e filosofica e di origine Divina. Ci sono tre correnti in India invece, conosciute come nāstika cioè non-ortodosse sebbene, almeno le prime due, derivino dall’Induismo. Queste tre visioni nāstika sono il Buddhismo, il Jainismo e i Lokayata . Come suddetto, i Veda sono quattro, di cui il più antico è il Rig Veda, conosciuto come il Veda delle strofe (rig). Si dice che all’inizio il Veda era uno (il Rig Veda), da cui successivamente, si sono sviluppati gli altri tre cioè il Sāma Veda (il Veda delle melodie), lo Yajur Veda (il Veda dei rituali) e l’Atharva Veda (il Veda degli atharvan, i sacerdoti del fuoco), l’Atharva Veda è il più recente. I Veda si dividono in tre sezioni o trikānda: karmakānda (Mantra o Samhitā e Brāhmana), upāsanākānda (Āranyaka) e jñānakānda (Upanishad). Le Samhitā sono quattro: Rigvedasamhitā, Sāmavedasamhitā, Yajurvedasamhitā, Atharvavedasamhitā e sono state composte intorno al 2000 a.C-1100 a.C.; seguono i Brāhmana, composti intorno al 1100 a.C.-800 a.C.; gli Āranyaka, anch’essi composti intorno al 1100 a.C-800 a.C. e infine le Upanishad, composte dall’800 a.C al 300 a.C. circa per quanto concerne le Upanishad vediche, in senso stretto, vi sono testi successivi sotto lo stesso nome ma non rientrano nella categoria delle Upanishad vediche né quindi della shruti, la tradizione rivelata da fonte divina, tali testi sono stati composti in epoca medievale e vengono generalmente definiti Upanishad posteriori. I sistemi conoscitivi ortodossi o āstika sono sei e sono associati due a due ossia sono considerati tradizionalmente accoppiati. Sono i sei darshana (visioni), tutti e sei considerano i Veda come testi autorevoli rivelati da fonte sacra e divina o shruti e sono suddivisi in tre coppie: Yogadarshana (scuola dei mezzi pratici per raggiungere l’unione del sé inferiore con il sé superiore) e Sāmkhyadarshana (scuola dell’enumerazione dei principi cosmici ed individuali), Vaisheshikadarshana (scuola atomistica) e Nyāyadarshana (scuola della logica), Pūrvamīmāmsādarshana (scuola del ritualismo vedico) e Uttaramīmāmsādarshana o Vedānta (scuola della speculazione filosofica). Dunque lo Yoga non può, ad esempio, essere di origine buddhista, lo Yoga è tradizionalmente induista, in quanto è una delle sei visioni ortodosse dell’Induismo tradizionale. Lo Yoga è un darshana. Questi sono gli shad (sei) darshana dell’Induismo tradizionale. All’interno di queste sei visioni si dispiegano tutte le varie correnti hindū. Quando si parla dello Yoga, si dovrebbe intendere lo Yogadarshana, per essere precisi. Lo Yoga è l’insieme delle pratiche necessarie per poter contattare e ricongiungersi allo spirito o paramātman, esistono otto mezzi nel Rāja Yoga per realizzare questa unione, il mezzo o anga finale è il samādhi in sanscrito: perfetto raccoglimento spirituale, estasi mistica, assorbimento divino ovvero l’ottavo mezzo, risultato dell’unione (yuj: unire, radice sanscrita da cui deriva il termine Yoga) con lo spirito supremo. Sono gli otto mezzi dell’Ashtānga (letteralmente, appunto, “otto mezzi”) Yoga che si basano sul testo classico: Yogasūtra, il cui autore Patañjali, è universalmente considerato all’interno dell’Induismo il codificatore e sistematizzatore dello Yogadarshana. Gli anga sono dunque i mezzi pratici che l’essere umano ha a disposizione per poter contattare e ricongiungersi allo spirito. Gli shad darshana sono le sei visioni dell’Induismo ortodosso. Lo Yoga fa parte di una di queste sei visioni e quindi considera i Veda come i testi più autorevoli che esistono sul pianeta, non esiste uno yogi che rinneghi i Veda, tradizionalmente non sarebbe considerato uno yogi. Ma arriviamo al punto; il Sāmkhya è la spiegazione teorico-metafisica che serve per comprendere i fondamenti teorici dello Yoga. Quindi chi dice di conoscere lo Yoga e non conosce il Sāmkhya da un punto di vista hindū è come un sacerdote cattolico che conosce i rituali cattolici e non la teologia. Molte concezioni teoriche dello Yoga sono logicamente importate dal Sāmkhya, come il concetto degli elementi a livello microscopico. Sostanzialmente tutto il percorso Yoga ha a che fare con gli elementi sottili o sūkshmabhūta. Tutto ciò che, nell’Induismo, viene generalmente associato al termine sottile, attraverso uno studio approfondito del vaisheshikadarshana, in realtà, più che una materia eterea non ben definita, trattasi semplicemente del livello microscopico della materia, in particolare quello quantistico, motivo per cui, in questo libro il termine sanscrito sūkshma o sottile verrà interpretato, anche in tal modo, come il termine sanscrito sthūla o grossolano, viene utilizzato, qui, come macroscopico. Ogni elemento sottile è collegato ad un aspetto della creazione che deve essere vissuto, elaborato e superato. Questi aspetti della creazione, in sanscrito sono definiti loka o mondi, dimensioni, regioni, piani o universi, e sono vere e proprie dimensioni parallele. Il concetto di mondo induista, inteso come loka, è però da interpretare, secondo quello che intendono i testi sacri tradizionali, in relazione ad una visione cosmologica, perciò viene arbitrariamente tradotto anche come: “universo”, “regione”, “luogo”, “sfera”, “piano”. Secondo il nirukti (etimologia tradizionale sanscrita), il termine loka include la totalità di ciò che può essere percepito (sanscrito: lokayate) e del soggetto percipiente (sanscrito: lokayati). Tradizionalmente, nella filosofia metafisica induista, si considera una triplicità dimensionale definita triloka, per cui s’intendono tre diverse categorie di significati. La prima sottintende il mondo superiore (Svarga), il mondo terreno (Prithvī) e il mondo inferiore degli “inferi” (Pātāla), la seconda, le tre dimensioni più prossimali e comunemente condivise allo stato attuale di evoluzione dell’essere umano, ovvero: il mondo fisico (Bhūr), il mondo intermedio, emotivo o astrale (Bhuvar) e quello mentale (Svar), il primo dal quale è possibile contattare i mondi superiori o divini. La terza ed ultima categoria prevede quattordici mondi, sette sono quelli superiori o devaloka (tra cui il più basso e materiale, termine quest’ultimo da intendere, esclusivamente, come caratterizzato da coscienze umane particolarmente accentrate su attaccamenti fisici e sensoriali, è questo o Bhūrloka) e sono, in ordine ascendente: Bhūrloka, Bhuvarloka, Svarloka, Maharloka, Janarloka, Taparloka, Satyaloka e sette quelli inferiori o pātāla, in ordine discendente: Atala-loka, Vitala-loka, Sutala-loka, Talātala-loka, Rasātala-loka, Mahātala-loka, Pātāla-loka. I sette chakra principali , sono centri energetici e quindi non individuabili o collocabili ad un livello fisico denso, dunque macroscopico, e sono le porte percettive che permettono alla nostra coscienza di accedere a questi loka appartenenti ad altri universi spaziotemporali . Questo è il motivo per cui, tradizionalmente, ad ogni chakra viene fatto corrispondere un loka. Queste realtà dimensionali sono sostanziate da livelli diversi di prakriti o materia, questi livelli vengono espressi e resi comprensibili alla mente rappresentativa e speculativa dell’essere umano anche attraverso il concetto degli elementi sottili, motivo per cui ogni chakra è collegato ad un elemento specifico che oltre a definire la sostanza di quel chakra, indica il livello e la qualità materiale che caratterizza quel loka specifico a cui quel chakra è collegato. Da dove trae lo Yoga l’interesse e la conoscenza degli elementi sottili? Dal Sāmkhyadarshana, il darshana al quale è tradizionalmente accoppiato ovvero lo studio sistematico della creazione, in cui i sūkshmabhūta, gli elementi sottili o a livello microscopico, hanno un ruolo fondamentale. I darshana non sono gli unici sistemi conoscitivi ortodossi che fanno riferimento ai Veda, vi sono anche i sei vedānga, di cui l’astrologia vedica o Jyotishavedānga è uno e i quattro upaveda o Veda secondari come, ad esempio, l’Āyurveda, genericamente definito come medicina tradizionale indiana. Nell’Induismo i Veda, i darshana, gli upaveda e i vedānga sono tutti aspetti interconnessi. Questo è il motivo per cui se vogliamo comprendere cosa sono gli elementi (sottili o ad un livello microscopico) che caratterizzano le dodici costellazioni da cui i pianeti del nostro sistema solare traggono le loro principali caratteristiche, dobbiamo conoscere e comprendere cosa insegnano al riguardo il Sāmkhya e lo Yoga. In astrologia vedica, i quattro elementi che caratterizzano le costellazioni (aria, fuoco, acqua e terra) e conseguentemente i navagraha (i sette pianeti tradizionali e i due nodi lunari , utilizzati in astrologia vedica), sono gli stessi elementi sottili, cioè ad un livello microscopico (quantistico), o sūkhsmabhūta che caratterizzano e formano tutta la creazione e tutto l’esistente, come insegnato dal Sāmkhyadarshana e sono gli stessi elementi caratterizzanti ogni singolo chakra, i quali devono essere dominati e trascesi per ottenere il samādhi, l’assorbimento nell’elemento supremo che è lo spirito. Secondo il sistema della creazione del Sāmkhya, gli elementi sottili tradizionali, come i loro corrispettivi grossolani, sono cinque: ākāsha (etere), vāyu (aria), tejas (fuoco), āpas (acqua) e prithvī (terra), ogni elemento deriva da quello più sottile, ākāsha deriva da mahat, l’intelligenza cosmica. Sia il mahat che gli elementi successivi, derivano da una serie di perturbazioni (kshoba o spanda), che rompono l’equilibrio o simmetria iniziale dei mahāguna o triguna, le tre qualità primordiali e basilari dell’universo, secondo il Sāmkhya e l’Induismo in generale. Ogni elemento è, in essenza, il risultato di una combinazione diversa dei triguna, le tre fondamentali qualità di prakriti o materia: sattva, l’armonia, rajas, il movimento, e tamas, il consolidamento. Ākāsha è l’elemento più sottile ed è costituito primariamente di sattva guna, le sue caratteristiche principali sono la vacuità, lo spazio, l’espansione, la sottigliezza, la recettività, la non resistenza, la leggerezza e la morbidezza; vāyu deriva da ākāsha, è costituito di sattva e rajas guna, le sue caratteristiche sono il movimento, la dispersione, la leggerezza, la sottigliezza, la freddezza e la secchezza; tejas deriva da vāyu ed è costituito primariamente di rajas guna, le sue caratteristiche sono la forma, la leggerezza, la sottigliezza, la secchezza, la penetrazione e il calore; āpas deriva da tejas, è costituita di tamas e sattva guna, le sue caratteristiche sono la morbidezza, la coesione, l’addensamento, la fluidità e la vischiosità; prithvī deriva da āpas, è costituito di tamas guna, le sue caratteristiche sono la stabilità, la densità, la pesantezza, la grossolanità e la durezza. A tale definizione vi sono da aggiungere poi le ulteriori specificazioni fatte dal jyotishavedānga, l’astrologia vedica (poi importate dall’astrologia occidentale); si tratta dei tre aspetti di ogni elemento, ossia chara (cardinale), sthira (fisso) e dwiswabhava, (“doppia natura”, mobile), le quali definiscono tre specifiche modalità di manifestazione dello stesso elemento che producono esperienze percettive diverse, anche all’interno del medesimo elemento e che condizionano diversamente i vari corpi (kosha), quindi i vari stati di coscienza, dell’individuo. Quando un elemento è definito cardinale è per indicare la sua fase iniziale, la sua forza è esplosiva in quanto indica l’entrata in manifestazione di quell’elemento e il momento in cui la sua forza è maggiore e dirompente. Quando un elemento viene definito fisso, s’intende la fase in cui quell’elemento si consolida, si radica e si stabilizza nella creazione. Quando un elemento è definito mobile, il suo comportamento è discontinuo e la sua espressione è caratterizzata da fasi alterne, si alternano momenti di massima espansione a momenti di massima contrazione, momenti di forte intensità energetica alternati a momenti di debole carica energetica. Tutte queste specifiche modalità di manifestazione concorrono nel condizionare, qualificare e caratterizzare nell’essere umano, quattro chakra di sette (dal basso: mūlādhāra, svādhishthāna, manipura e anāhata), quindi i quattro kosha o involucri ad essi connessi (annamayakosha/prānamayakosha o corpo fisico-eterico, kāmamayakosha o corpo emotivo, manomayakosha o corpo mentale e buddhimayakosha o corpo intuitivo) i quattro loka o mondi corrispondenti (Bhūrloka o mondo fisico-eterico, Bhuvarloka o mondo emotivo, Svarloka o mondo mentale e Maharloka, mondo intuitivo o grande mondo) nonché le caratteristiche astrologiche dei pianeti del nostro sistema solare come di specifiche stelle, sistemi stellari e ammassi stellari. Tutte queste specificità sono interconnesse tra loro attraverso circuiti “obbligati” perché tutti enti appartenenti allo stesso campo unificato dell’universo, all’interno dei quali si oggettivano i suddetti stati quantistici specifici. I panchasūkshmabhūta, hanno un’altra fondamentale funzione, cioè quella di costituire ciascuno dei tre dosha o principi bioenergetici fondamentali dell’Āyurveda, indispensabili per stabilire due fattori, lo stato di squilibrio psicofisico che può portare come conseguenza all’instaurarsi di specifiche patologie, e la particolare prakruti (sanscrito: natura) di ognuno, in relazione, come vedremo, all’assetto energetico individuale. Il primo dosha, quello più sottile è vāta, ed è il dosha connesso al movimento e alla propulsione, controlla tutti le attività e i bioritmi all’interno dell’organismo, è connesso, in particolare, all’attività cardiaca, alla respirazione e al sistema nervoso centrale e periferico, è costituito dall’ākāsha e da vāyu, mutuando da essi le rispettive caratteristiche fisiche e psicologiche, è connotato dal sattva e dal rajas. Pitta dosha, è il principio bioenergetico connesso alla trasformazione, tutte quelle attività che hanno una funzione catabolica come, ad esempio, le attività enzimatiche, sono sotto il suo controllo, è in relazione particolare anche con la componente corpuscolare del sangue e con il sistema immunitario ed endocrino, è costituito dagli elementi sottili tejas ed āpas e da essi mutua le proprie caratteristiche fisiche e psicologiche, è fortemente connotato dal rajas, e in parte, dal tamas. Kapha dosha, è il principio bioenergetico che dona stabilità, coesione, struttura ma anche pesantezza e grossolanità, è particolarmente connesso a quelle strutture e quei tessuti dell’organismo che donano stabilità ma anche consistenza e lubrificazione, come l’apparato muscolo-scheletrico, il tessuto adiposo, il liquido sinoviale, il liquido pleurico, ecc…altra sua importante relazione è con tutti i tessuti liquidi del corpo, come la linfa, il plasma, ecc… È costituito dagli elementi sottili āpas e prithvī ed ha una natura fortemente connotata di tamas e sattva. I tridosha formano combinandosi tra loro in proporzioni diverse la cosiddetta prakruti (natura) dell’individuo, termine ayurvedico che indica la particolare natura psicofisica di ciascuno. Vedremo, più avanti, come le sette forze o emanazioni, sono, rispetto all’essere umano, in relazione con le sette tipologie costituzionali dell’āyurveda (saptaprakruti), ovvero: 1) Prakruti con vāta dominante 2) Prakruti con pitta dominante 3) Prakruti con kapha dominante 4) Prakruti tipologia vāta/pitta 5) Prakruti tipologia vāta/kapha 6) Prakruti tipologia pitta/kapha 7) Prakruti tipologia vāta/pitta/kapha A proposito di questa disciplina millenaria, sorella dello Yoga, Āyurveda significa “scienza della vita” infatti, la definizione di “medicina tradizionale indiana” è generica, riduttiva ed ha un significato esclusivo solo in Occidente e per chi è condizionato da tali paradigmi. In realtà, per formarsi seriamente in Āyurveda il percorso tradizionale prevede una conoscenza profonda, almeno, di tutti e sei i darshana (Sāmkhya, Yoga, Nyāya, Vaisheshika, Purvamīmāmsā, Uttaramīmāmsā o Vedānta), nonché del Jyotishavedānga (astrologia hindū) come della shruti (Veda), motivo per cui, il vero maestro di Āyurveda, è l’unico dei maestri, dei rispettivi sistemi hindū, ad essere definito vaidya, ovvero sapiente. L’Āyurveda purtroppo ha subito in Occidente lo stesso destino dello yoga e del Jyotishavedānga, è stato semplificato e banalizzato a dismisura, facendo credere, agli ingenui come agli approfittatori senza scrupoli, che sia possibile, attraverso dei corsi di qualche manciata di ore, qualificarsi operatori di āyurveda. Molti infatti credono, ad esempio, di poter stabilire la tipologia costituzionale o prakruti (natura), relativamente ai tridosha (vata, pitta e kapha), solo osservando l’aspetto fisico di un individuo e, al limite, qualche tendenza caratteriale e comportamentale. Inutile dire che tutto ciò rientra nell’approssimazione e nell’improvvisazione vera e propria, ci vuole ben più di una semplice osservazione sommaria psicofisica, per stabilire la prakruti di ognuno, e a volte non sono sufficienti anni di applicazione per la materia in questione, senza uno studio e una pratica corretta con l’aiuto e i suggerimenti di un vero “sapiente” in Āyurveda.
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