Shiva e l’Hatha Yoga

“Questo è l’Hathayogapradīpikā, sia gloria al Supremo Ādinātha (Shiva) che ha rivelato la conoscenza dello Hatha Yoga, essa è come una scala luminosa che porta in alto per colui che desidera arrivare al Rāja Yoga.” (Hathayogapradīpikā, cap. 1, v.1)

L’Hathayogapradīpikā è uno dei testi fondamentali per apprendere la pratica dello Yoga, è composto da 389 versi, suddivisi in 4 capitoli. In alcune versioni vi è anche un 5° capitolo di 24 versi dove vengono descritti i disturbi provocati da una cattiva pratica dello Yoga. Questo testo viene attribuito ad un certo Svātmārāma, conosciuto anche come Cintāmani, membro della setta tantrica dei kānphata yogin, cioè gli yogin dalle orecchie forate, dall’abitudine che avevano di forare la cartilagine dei padiglioni auricolari e poi inserirvi solitamente orecchini fatti con corna di rinoceronte. Questa setta rappresenta una delle più famose tradizioni shivaite di matrice manifestamente tantrica. Si dice che i kānphata yogin risalgano direttamente al famoso yogi tantrico Gorakshanāth. La loro tradizione si basa sui nove nāth ovvero anime immortali unite a Shiva che tradizionalmente, si racconta, abitino sull’Himalaya su un altro piano dimensionale (verosimilmente un’altra linea spaziotemporale) e agli ottantaquattro siddha, i perfetti, coloro che hanno raggiunto la perfezione nello Hatha Yoga. Secondo la tradizione più ortodossa è attraverso questa successione disciplica (paramparā, sampradāya) che l’Hatha Yoga è arrivato fino ai giorni nostri. A capo dei nove nāth, di cui Goraksha è uno, vi è Ādināth, il Signore originale, uno degli appellativi di Shiva. All’interno del testo si rende omaggio a Shiva (oltre che ai nāth e ai siddha), attraverso cui, come spiega il testo, è stato possibile compilare l’Hathayogapradīpikā. Viene inoltre spiegato chiaramente (es. Hathayogapradīpikā, I° cap. verso 1 e verso 33) che la pratica dello Yoga originariamente fu esposta da Shiva (singolarmente in linea con il sigillo n.420 ritrovato a Mohenjo-daro, descritto precedentemente, che rappresenta in maniera piuttosto palese, come abbiamo visto e come generalmente riconosciuto, la raffigurazione di un proto-Shiva). Questo è uno dei motivi per cui nell’Induismo, Shiva è conosciuto anche come Yogindra o Yogishvara, cioè il Signore degi yogi o yogin e come Mahāyogin, il Grande Yogin. La corrente conosciuta come Tantrismo, che tradizionalmente, viene fatta risalire a Shiva e alla sua consorte Shakti, proprio per questa origine in comune con lo Hatha Yoga, ha al suo interno molti elementi di quest’ultimo, come la fisiologia esoterica descritta all’interno di numerosi testi Yoga ovvero i tre cardini: chakra, nādī e kundalinī. Questo testo, che in italiano, può essere tradotto come “la lanterna dello Hatha Yoga”, è un testo illuminante per quanto riguarda questa tradizione e tutto lo Yoga in genere. Il termine hatha ha due significati, uno è quello di “sforzo violento”, “intenso” e quindi Hatha Yoga può essere tradotto come “lo Yoga dello sforzo intenso”, l’altro significato, più metafisico, indica l’unione del principio solare col principio lunare, rispettivamente ha e tha, yang e yin, pingalā nādī e idā nādī, la nādī solare e quella lunare. Lo Yoga dello sforzo violento, perché richiede una forte volontà e determinazione nel lavorare dapprima con il proprio corpo fisico per purificarlo, soggiogarlo e renderlo idoneo alla pratica delle posture meditative o āsana e così successivamente renderlo adatto alle pratiche respiratorie Yoga o prānāyāma e meditative più avanzate (bandha, mudrā, kriyā e dhyāna). Per praticare l’Hatha Yoga sono necessarie una forte volontà e la disposizione a vincere la stanchezza e la naturale pigrizia a cui il corpo fisico è costantemente sottoposto (effetto della consistente presenza in questo loka/yuga del tamas guna) relativamente all’era che caratterizza questa linea spaziotemporale, il Kālīyuga. È bene sottolineare comunque, che questo sforzo, non è da intendersi come lo sforzo ginnico secondo una concezione occidentale, ma uno sforzo iniziale che deve condurre ad un difficile, quanto importante, punto di equilibrio tra rilassamento e tensione, stato fisico e in parte, psicologico, stati fondamentali per eseguire successivamente le āsana e quindi esercizi più complessi come: prānāyāma, mudrā, bandha, ecc…in modo corretto. L’Hathayogapradīpikā è considerato il commento al Gorakshashataka, testo attribuibile a Gorakshanāth, uno dei fondatori, come già detto, dell’orientamento tantrico dei kānphata yogin. A questo punto, datare la tradizione dello Hatha Yoga diventa tortuoso, perché sulla nascita, sulla vita e sulla morte di Gorakshanāth ci sono soltanto supposizioni, inoltre i kānphata yogin risentono profondamente della setta tantrica dei kaula i quali, già al tempo del sistematizzatore shivaita Abhinavagupta, che ha operato (e qui sicuramente) intorno al 900 d.C. avevano una tradizione disciplica, filosofica e pratica già consolidata. Se poi volgiamo il nostro sguardo indietro nel lontano passato alla civiltà riscoperta nei siti di Mohenjo Daro e Harappa (3000-2500 a.C. circa), dove vi sono testimonianze evidenti che l’Hatha Yoga era già praticato, qualsiasi tentativo di datazione è, necessariamente, soggetto a rivisitazione.

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