Adesso affronteremo come viene identificato e collocato l’assetto energetico di un essere umano nella prospettiva che caratterizza questo libro, il quale ha tra i suoi riferimenti teorici la teoria del fisico Everett III, sul multiverso, “interpretazione a molti mondi” o MWI, sebbene solo per quanto concerne l’aspetto iniziale, perché, naturalmente la prospettiva finale è chiaramente intrisa di aspetti metafisici ed esoterici, perlopiù induisti, che la rendono fondamentalmente incompatibile con le ragioni scientifiche che spinsero il fisico Everett III a formulare la sua MWI. Questo è il momento, prima di procedere oltre, nella lettura di questa sezione, che tratta di questa particolare tematica, di chiarire come l’interpretazione che viene data ai fattori che condizionano e definiscono un assetto energetico non è propriamente quella di matrice teosofica, in cui vi è un chiaro riferimento a sette energie ma senza riferimenti precisi alle dashamahāvidyā tantriche, alle sephiroth, alle qliphoth, ai pātāla, alla teoria MWI e ad altri modelli teorici esplicativi di matrice scientifica. Probabilmente, rispetto a quest’ultimi modelli, per i teosofi e per molti esoteristi e mistici in genere, definire la natura di tali aspetti è un tentativo inutile, in quanto totalmente trascendenti la scienza, inclusa la “bizzarra” meccanica quantistica e, altrettanto probabilmente perché, forse, diversi non saprebbero come collegare tali aspetti con alcune teorie attuali e magari non ci provano neanche, essendo soddisfatti del fatto che al suo interno tale sistema esplicativo ha una sua coerenza. È una scelta, e come tale va rispettata. Io sono di tutt’altro avviso, per tre motivi principali. Il primo è che dobbiamo comprendere i contesti storici, dunque socio-culturali in cui si sono sviluppati determinati sistemi, come quello connesso a H.P.Blavatsky e quello connesso ad A.A.Bailey. Ritengo il secondo sistema metafisico, un’articolata e riuscita elaborazione del primo e il primo, già di per sé, un buon sistema metafisico, considerato il fatto che è stato formulato a cavallo tra ottocento e novecento. La Blavatsky ha lasciato il corpo nel 1891, la Bailey nel 1949, entrambe sono decedute precedentemente alla prima seria formulazione teorica sul multiverso, da parte di Everett III, nel 1957. Quando tali sistemi metafisici hanno preso forma e consistenza era ancora troppo presto per fare specifici collegamenti, ma ignorarli ora sarebbe, a mio avviso, inutile ad uno sviluppo corretto dell’esoterismo e dunque limitato e limitativo. La conoscenza è in continua espansione e così la conoscenza esoterica, nuove rivelazioni vengono fatte, nuovi collegamenti vengono alla luce ed emergono dalle tenebre dell’ignoranza. Forse ciò che sto per dire apparirà ad alcuni esoteristi, mistici, religiosi e spiritualisti in genere come controintuitivo. D’altronde, è ciò che i miei studi e le mie esperienze mi hanno portato ad elaborare. Altra motivazione è relativa ad una domanda che mi sono sempre posto rispetto a certi fenomeni di matrice soprannaturale, come gli “spiriti” dei disincarnati e, conseguentemente, i “corpi sottili” delle tradizioni mistiche ed esoteriche, e cioè come collocarli e dove collocarli, relativamente all’essere umano, a questo mondo e quindi a questa materia, senza l’ovvia intercessione della fede e del dogmatismo sull’esistenza dell’aldilà. A questo proposito ho trovato attinente la riflessione del fisico britannico David Deutsch (Premio Dirac 1998) formulata nel suo libro: Deutsch D., L’inizio dell’infinito, Einaudi Edizioni, 2013, dove, al capitolo “Il multiverso”, trattando di coloro che definisce con il termine “doppelgänger” (tedesco: sosia), ovvero la copia identica di un individuo, come quella presente in un universo parallelo, analizza con la logica, in quale modo potrebbero esistere dei “doppelgänger” che non vengono percepiti da coloro che si trovano in questo mondo (come una sorta di “spiriti” disincarnati, aggiungo io, con le stesse fattezze dei corpi fisici che li ospitavano), abitanti in quella che lui definisce “zona fantasma”, in cui sarebbero finiti, secondo l’esempio di Deutsch, per il malfunzionamento del teletrasportatore di un’astronave. Deutsch inizia la sua analisi, chiedendosi, dopo aver assunto che tali corpi sono identici strutturalmente ai corpi di questo mondo (una testa, un collo, due braccia, due occhi, un naso, ecc…), come farebbero a vedere il mondo fisico con cui, in qualche modo, sarebbero in grado d’interagire. Deutsch, non vede alternativa, coerentemente alla conformazione “umana” di tali sosia, viventi in una “zona fantasma”, che postulare il fatto che funzionino esattamente come i loro doppi nella dimensione fisica, altrimenti fa notare, giustamente, non si spiega perché siano strutturati secondo una forma umana, in quanto l’organismo umano è strutturato in un determinato modo, secondo quelle che sono le sue peculiari funzioni sensoriali, percettive, motorie, fisiologiche, ecc…, ovvero, si chiede Deutsch, in che modo i loro occhi vedono le forme, i colori e tutto il resto appartenente a questo mondo se non assorbendo la luce dello stesso? Ma se assorbono la luce, continua Deutsch, dovrebbero proiettare anche delle ombre, ancora, attraverso quale luce i “doppelgänger” della “zona fantasma”, si vedono tra loro? Attraverso quale luce, se non quella della “zona fantasma”? E quale sarebbe la fonte di tale luce? Deutsch, oltre a porre le suddette questioni, trasla lo stesso esempio anche alla presenza o meno di aria nella “zona fantasma”, chiedendosi quale aria respirano i “doppelgänger”, dal momento che nel caso fosse quella di questo mondo, li sentiremmo anche parlare, respirare, ecc…. Queste ed altre evidenti contraddizioni, è palese che violano, oltre che le leggi fisiche anche il buon senso. I religiosi e i mistici, in generale, potrebbero controbattere a queste riflessioni che i cosiddetti “spiriti” sono composti di altra “materia”, una materia totalmente sconosciuta e totalmente differente, ma questo non spiegherebbe perché tali spiriti o entità disincarnate, in tutte le tradizioni religiose, mistiche ed esoteriche, più o meno antiche, come nelle esperienze dei più famosi maestri, veggenti o medium della storia (vedere, ad esempio, a tale proposito: Paramahansa Yogānanda, Autobiografia di uno yogi, Astrolabio Edizioni, 2009, al capitolo “La resurrezione di Shrī Yukteswar”), sono, prevalentemente, stati visti con forme umane e, spesso, nella condizione di parlare, con un linguaggio che fosse comprensibile all’interlocutore o agli interlocutori. La questione, legittima, sulla natura delle entità disincarnate può essere espansa anche a quella dei corpi sottili hindū o kosha, i quali, secondo le Upanishad vediche, avrebbero la stessa conformazione e struttura del corpo umano ordinario (vedere, ad esempio, Taittirya Upanishad, parte prima, cap.5, v.1). Queste valutazioni mi hanno portato a cercare una possibile giustificazione teorica che fosse coerente sia con l’evidenza logica e sia con la metafisica, perché ho sempre creduto che il Divino deve lasciare degli indizi della sua esistenza anche nella materialità di questo mondo, essendo, per definizione, tutt’uno con esso e non ho mai accettato l’idea di uno Spirito supremo, totalmente, avulso dalla realtà materiale, motivo per cui considero la metafisica hindū, più completa delle altre, e ora spiegherò perché. La terza motivazione è una diretta conseguenza dell’approfondimento del concetto di materia secondo l’Induismo, attraverso uno studio sistematico dei darshana hindū, in particolare del vaisheshikadarshana e del sāmkhyadarshana. Il primo, è un sistema filosofico hindū che studia la struttura essenziale della materia, l’altro la genesi creativa con l’enumerazione dei principi fondamentali della creazione, entrambi appartengono a due delle sei principali scuole filosofiche ortodosse dell’Induismo. Attraverso lo studio comparato di questi due sistemi e attraverso l’approfondimento dei concetti di sūkshma (sottile) e di loka (mondi), ho compreso quello che gli induisti antichi intendevano per “corpi sottili”, “aldilà”, “mondi”, ed altro e perché credevano alla reincarnazione. L’Induismo, descrive la reincarnazione perché tale conoscenza è ciò che rimane di una conoscenza molto più vasta, di cui, Induismo e Buddhismo hanno conservato traccia (ecco perché diversi aspetti, di queste due tradizioni, sono in linea con alcune conclusioni teoriche di moderni scienziati, come abbiamo potuto appurare), sistema che contemplava, secondo me, anche in antichità, il fenomeno del multiverso. Il vaisheshikadarshana, pur considerando i Veda, fonte autorevole e divina, è stato sovente definito come realismo atomistico per connotare la sua visione materialistica dell’universo. Questo sistema filosofico, analizza ogni cosa dell’esistente, attraverso tale visione atomistica, riducendo tutto l’esistente ai paramanu (atomi supremi) e agli anu, o atomi. Implicitamente, mette tutto, concretamente, allo stesso livello materiale, sia che si tratti del corpo, che dei corpi sottili, o dell’anima, nel senso che considera ogni ente, il prodotto, individuale o meno, eterno o meno, della stessa sostanza definita, nel vaisheshika, dravya (sanscrito: sostanza), una delle sei categorie (padārtha), che secondo questa scuola, come vedremo più avanti, strutturano tutta la realtà. La scuola vaisheshika, è definita prevalentemente realismo atomistico, ma è, implicitamente anche teista, in quanto considera, lo Spirito supremo, i molteplici ātman, insieme a kala (tempo), dik (spazio) e manas (mente), enti eterni, tutto esisterebbe grazie al potere creativo insito nei paramanu e lo Spirito supremo o “Dio”, in quest’ottica, non sarebbe il creatore di tutto, bensì svolgerebbe la funzione di “regolatore” di una materia preesistente o coesistente, costituita di atomi i quali agiscono per mezzo di una forza dell’universo nascosta, misteriosa e oscura, quanto potente, che il vaisheshika definisce adrishta, termine sanscrito che significa “invisibile”, tale forza invisibile, sempre secondo il vaisheshika, definirebbe le attività degli atomi e delle molteplici anime individuali. Tutti questi, ed altri, concetti sono contenuti nel Vaisheshikasūtra di Kanāda (codificatore di questo sistema). Peraltro, sempre nel suddetto testo, redatto nei primi secoli dopo Cristo, emerge già il concetto di indivisibilità dello spaziotempo. Non esistono aldilà, in questa visione filosofica, eterei, dove le leggi della natura sono stravolte o dove strani esseri indefiniti e volatili, ovvero “sottili” come pensieri ed emozioni, ci osservano, certo altre leggi fisiche dovranno essere scoperte, ma questo non significa negare una parte di realtà per affermarne un’altra, credo piuttosto, in un filo conduttore che leghi aspetti diversi di una realtà, che gli esoteristi o i mistici, non devono aver timore di definire nella sua totalità fisica. Tutto, nel vaisheshika, viene analizzato attraverso il concetto di dravya o sostanza e dravya, cioè il tessuto di tutta l’esistenza, in spirito o in carne, è specificata da alcune categorie definite (padārtha), delle quali, peraltro, fa parte. Tale sostanza onnipervadente che è lei stessa padārtha, ovvero una categoria dell’esistente, è a sua volta condizionata dalle altre categorie che sono: particolarità (vishesha), qualità (guna), azione (karma), generalità (sāmānya), inerenza (samavāya). Il sāmkhyadarshana, altrettanto chiaramente, sostiene che buddhi (intuizione spirituale), ahamkāra (senso dell’io, ego), citta (porzione della sostanza mentale in cui albergano le tendenze inconsce e subconsce), manas (mente empirica analitica e selettiva), ovvero tutti i fattori che compongono l’antahkārana, definito tradizionalmente come “organo interno”, e costituito di tutte le vritti (modificazioni) di un concetto generale che può essere tradotto come “sostanza mentale”, sono modificazioni della prakriti, o materia informe, certo attraverso l’ausilio del purusha o spirito, ma la sostanza di base, fondamentale, di cui sarebbero composte la stessa mente (manas), nonché la stessa intuizione spirituale (buddhi) come il subconscio-inconscio (citta) e l’ego (ahamkāra), rimane, innegabilmente, la materia, la stessa prakriti che, sempre secondo la genesi sāmkhya, compone attraverso gli sthūlabhūta o mahābhūta, cioè, gli elementi grossolani, tutta la materia tangibile della quale attraverso i sensi fisici, facciamo normalmente esperienza, come il cibo, gli oggetti, ecc…. Secondo il sāmkhya, come secondo il vaisheshika, la sostanza mentale, anche ad un livello spirituale (buddhi), è composta della stessa materia che compone gli oggetti fisici, ma ad un livello differente. Dunque in cosa differisce la “materia” che compone, ad esempio, un pensiero da quella che compone un tavolino? Non differisce in quanto “sostanza” sconosciuta di altra natura, rispetto alla materia che compone tutto ciò che ci circonda (case, palazzi, strade, uomini, donne, alberi, animali, montagne, oceani, pianeti, stelle, galassie, ecc…), ma più congruamente, nel livello, macroscopico o microscopico, e nella specifica categoria alla quale appartiene quel livello. Quando trattiamo di antahkārana, il riferimento è al livello quantistico della materia e, coerentemente, non dei quattro tipi di quanti, associati alle quattro interazioni fondamentali della natura, ma di una nuova tipologia alla base di una forza ancora sconosciuta. In sostanza, quello che, per l’analisi che mi sono proposto di fare, è sufficiente sapere, è che dopo lo studio di tali sistemi e di altri testi in ambito hindū, non è necessario postulare, corpi costituiti di una materia diversa da quella fisica, intesa come totalmente di altra natura (governata da leggi fisiche alternative a quelle conosciute), come comunemente intesi gli spiriti o le anime, in relazione ai corpi fisici, ovvero, abbiamo a che fare con un materialismo induista, in parte già tratteggiato, da un punto di vista filosofico, al cap.1, prima sezione, a cui rimando. Se prendiamo i Purāna o gli Itihāsa hindū, o le stesse Samhitā vediche, per fare alcuni esempi, traspare in maniera evidente come, anche quando si parla di divinità o di mondi “spirituali”, i comportamenti e le connotazioni di tali divinità, sono del tutto simili e paragonabili a quelli di esseri umani, su pianeti fisici come la Terra con qualche variante, ma relativa, perlopiù, alla maggiore consapevolezza spirituale che si ripercuote in maniera evidente anche sul corrispettivo pianeta. D’altra parte, il nostro pianeta con i suoi sconvolgimenti climatici e tutto il resto, non è forse l’estensione del comportamento e dell’atteggiamento di noi esseri umani? Non vi è alcun bisogno, per rendere migliore un essere, privarlo di un corpo fisico, descrivendolo in spirito, o descrivere un pianeta come costituito da materia inconsistente. Inoltre, nell’Induismo, tale distinzione, relativa ad una differente natura della sostanza (dravya) o materia (prakriti), che costituirebbe materia e spirito, non è mai esplicitata, anzi Shiva, ad esempio, una delle maggiori, se non la maggiore, divinità indiana, viene descritto in tutti i testi sacri hindū, che a lui fanno riferimento, con due braccia, due gambe, una testa, coperto di cenere, ecc…tutte descrizioni traslabili tranquillamente ad un essere umano in carne ed ossa e così è per la maggioranza delle altre principali divinità hindū e tutto l’universo, secondo il vaisheshikadarshana, è costituito di anu, il corrispettivo sanscrito di atomi. Esoterismo antico e scienza hanno, secondo me, un terreno comune, e questo territorio condiviso, dove alcuni aspetti delle conoscenze metafisiche antiche acquisiscono una parvenza di giustificazione scientifica è la meccanica quantistica. La teoria fisica di Everett III nasce come possibile interpretazione dei fenomeni quantistici che si verificano nel mondo microscopico tentando un’estensione ai fenomeni macroscopici. Non vi è alcuna necessità nell’Induismo di postulare una materia radicalmente diversa da questa e mondi equivalenti. Mi sono convinto maggiormente di questo, quando ho approfondito il termine sanscrito sūkshma, ovvero sottile, termine utilizzato per definire quella materia che compone i corpi, oltre quello fisico, da quello emotivo all’ātman, o anima, come i loka o mondi corrispondenti, i chakra e tutto quello che non può essere visto, udito, ecc…attraverso i sensi. Molte cose che non si possono vedere, appartengono a questa materia, pensate ad un semplice atomo. Molti, forse, non sanno che nel sistema ortodosso del vaisheshikadarshana, ciò che viene chiaramente specificato come sūkshma è sinonimo di microscopico, ed è riferito specificatamente ad anu, l’atomo, in quanto inerente al livello atomico e subatomico e non a una qualche strana “sottigliezza” soprannaturale. Il fatto d’interpretare concetti come mondi, anima, corpi, come composti di un’altra materia è stata una superficiale e approssimativa interpretazione dei testi sacri, probabilmente relativa al fatto che in diversi passi dei testi sacri si dice che l’anima è immortale, il corpo fisico sappiamo per certo che invece muore. Questa non banale differenza, ha fatto ritenere che i due enti fossero costituiti di “materie” di diversa natura, cioè governate da leggi fisiche differenti, ma ora possiamo teorizzare con alcuni recenti studi dimostrativi, che anche la coscienza come insieme d’informazioni quantistiche potrebbe essere immortale e il livello quantistico è solo un altro livello della materia, ma sempre della stessa materia si tratta. Altra motivazione, che ha spinto diversi individui ad un’interpretazione dualista spirito-materia dell’Induismo è stata, verosimilmente, quella di non vedere né i pensieri e né le emozioni, ma soprattutto i sentimenti importanti o la creatività, che pur non potendo essere osservati terrenamente e direttamente, hanno un grande, enorme potere nel plasmare le vicende umane. Potrà sembrare squallido ciò che dico, e togliere poesia all’Induismo, o al misticismo e all’esoterismo in genere, ma ritengo, invece, in linea con il vaisheshikadarshana e il sāmkhyadarshana che il “paradiso”, il “purgatorio” e l'”inferno”, teorizzandone l’esistenza, per dirla con il Cristianesimo, siano mondi, non solo come questo e abitati da esseri come noi, ma da noi stessi o meglio dai nostri “alter ego”, abitanti di mondi paralleli in altri universi spaziotemporali. Quindi, costituiti esattamente dalla stessa materia di cui sono composti i nostri corpi fisici. Cosa sono allora, i corpi sottili, emotivo, mentale, buddhico, atmico, ecc…dell’Induismo? E cos’è la mente secondo l’Induismo? E l’anima? E dove andiamo quando questo corpo muore? Cosa sono i loka induisti? Ecc… attraverso queste ed altre domande entrano in scena i concetti di reincarnazione e di multiverso. La reincarnazione, ha un possibile senso logico-scientifico, solo all’interno della teoria del multiverso, in particolare di quelle teorie che si sono sviluppate dalla teoria MWI, per diversi motivi, tra cui, non ultimo, il fatto che all’interno di questa prospettiva teorica è, secondo me, teoricamente, possibile l’incarnazione umana, mentre in altre teorie fisiche, sempre sul multiverso, tale possibilità è difficilmente conciliabile, almeno per ora. Intanto, perché qui non si parla di mondi con leggi fisiche diverse, ma con le stesse leggi fisiche di questo, secondariamente, s’inserisce pienamente nel contesto di un karma individuale che deve essere vissuto e spesso “rivissuto”, e renderebbe giustizia a quel mistero definito come déjà vu, ovvero la sensazione netta, mentre l’individuo sta facendo esperienza nel presente, di aver già vissuto una specifica situazione, in certi casi addirittura da anticipare quello che deve ancora succedere, quasi senza margine di errore, sensazione che molti di noi nella loro vita hanno provato. La teoria MWI, darebbe, a mio avviso, da un punto di vista, ovviamente esoterico, una spiegazione coerente a tutta una serie di fenomeni che, altrimenti, rimarrebbero nel regno dei dogmi o, nei casi migliori, “eternamente” in quello soprannaturale, come i corpi sottili, la medianità, i chakra, ecc… In questo articolato contesto, è necessario affrontare e chiarire, alcuni importanti punti (per sapere cosa dice la teoria di Everett III vedere Appendice n.3, per comprendere su quali presupposti tale teoria si basa, vedere Appendici n.1, 2 e 4). Partiamo dalla prima questione; cosa sono i loka e perché sono sette quelli principali, in relazione all’essere umano? Loka, significa mondo, in sanscrito, e sono nel numero di sette, come vedremo. Questi sette mondi in realtà sono categorie di mondi. Infatti, come viene sistematicamente elaborato nei testi della Bailey, ogni piano viene ulteriormente suddiviso in altri sette sottopiani (Bailey A.A., Trattato sul fuoco cosmico, Il Libraio delle Stelle, 1980). La Bailey suddivide ciascuno dei sette piani, i quali corrispondono, nei suoi trattati, alle caratteristiche dei sette loka induisti, in altri sette sottopiani. Tali sottopiani corrispondono qui ai submondi o upaloka (sanscrito: mondi secondari). Non nel senso che sono globi meno grandi, ma inerente al fatto che ognuno di questi mondi, si sarebbe sviluppato da biforcazioni spaziotemporali di uno dei sette principali mondi (loka) a cui fanno riferimento e del quale sarebbero “sottopiani”. In tal senso i mondi o loka, ammontano a 49 che insieme ai sette pātāla o inferni hindū, con i loro submondi, fanno 98. La costante numerica, qui, è che ogni mondo sarebbe caratterizzato da sette principali biforcazioni spaziotemporali. Ma biforcazioni principali non significa uniche, infatti le biforcazioni spaziotemporali, in linea con la teoria di Everett III, sono infinite, l’unico parametro vincolante numericamente, nell’Induismo, è la suddivisione in sette loka e sette pātāla, anziché, ad esempio, in otto, nove, cinque, ecc… Riassumendo concetti già espressi precedentemente, una biforcazione spaziotemporale o linea temporale alternativa, si verificherebbe tutte le volte che nell’esistenza, vi sono stati sovrapposti, cioè sempre, ma solo quando entra in gioco la coscienza si crea una biforcazione, in quanto la coscienza è quell’elemento che causa il collasso della funzione d’onda, ovvero la decoerenza tra stati quantistici, stati precedentemente sovrapposti. Difficile stabilire quali sono le qualità della coscienza in grado di far collassare la funzione d’onda in stati definiti, nessuno lo sa con certezza, anzi nessuno sa, con certezza, cosa, nello specifico, causi il collasso della funzione d’onda. C’è chi sostiene che sia l’osservazione stessa, anche priva di una qualsivoglia coscienza umana, a far collassare la funzione d’onda, in effetti, in funzione delle evidenze sperimentali, sarebbe sufficiente un rilevatore automatico per far passare i fotoni o gli elettroni da uno stato di coerenza ad uno di decoerenza, ad ogni modo l’elemento coscienza permane, da una parte o dall’altra o da entrambe, perché anche in questo caso, ad essere “coscienti” sarebbero le particelle, quindi l’elemento coscienza rimane un mistero. Sta di fatto che ad un livello microscopico la materia è così che sembrerebbe funzionare, ad ogni modo da ciò non consegue affatto, almeno in condizioni normali, che l’individuo possa creare la propria realtà, la realtà che desidera, o scegliere in piena autonomia in quale mondo parallelo abitare, i principi della meccanica quantistica e i risultati di alcuni esperimenti, non dicono questo e né, tantomeno, l’Induismo che, soprattutto all’interno di precisi vincoli, lascia molto meno spazio di “movimento” all’essere umano, di ciò che comunemente ed erroneamente si crede. Everett III, ed altri fisici, traslando questi principi all’universo, hanno teorizzato l’esistenza del multiverso che diventa irrinunciabile qualora si considerino per il macroscopico, gli stessi principi che valgono per il microscopico. Come abbiamo visto, la decoerenza quantistica è uno stato fisico in cui due sistemi non sono più in una fase sincronica, ed entrambi esisterebbero simultaneamente in stati quantistici diversi, ovvero, l’esistenza si manifesterebbe in entrambe le condizioni, fisicamente incompatibili l’una con l’altra, come l’essere vivi e l’essere morti contemporaneamente o avere la madre viva e morta contemporaneamente, oppure essere sposati e divorziati contemporaneamente o, ancora, essere su una sedia a rotelle a causa di un’incidente d’auto e camminare contemporaneamente con le proprie gambe. Come sarebbe possibile? Questo i fisici non lo sanno, ma il comportamento del livello microscopico, della materia porterebbe a queste e ad altre conclusioni, altrettanto “bizzarre”, motivo per cui estendendo tale concezione al macroscopico, diventa teorizzabile considerare l’esistenza dei mondi paralleli, dove entrambe le versioni sono reali, questo è il motivo per cui recentemente, la teoria MWI viene riconsiderata e rivalutata, come modello teorico, da diversi fisici. Tali modelli teorici, di cui la teoria MWI non è l’unico, diventano una conseguenza inevitabile, a meno che non si desideri (cosa che i fisici stanno cercando di evitare in tutti i modi), creare due “fisiche” separate, una, con inclusa la meccanica quantistica, valida per il mondo microscopico e l’altra, con inclusa la relatività generale einsteniana, valida per il mondo macroscopico, fallimento non indifferente per la fisica, e per i fisici, in quanto incapaci di trovare costanti valide per l’universo nel suo complesso e quindi accontentarsi di una fisica che fa previsioni a metà, essendo i comportamenti relativi ai due mondi (microscopico e macroscopico), apparentemente, incompatibili perché le leggi fisiche funzionerebbero in maniera diversa. La teoria MWI, potrebbe ovviare a questo invalidante inconveniente, ma va detto che non è l’unica teoria in tal senso. Gli esperimenti scientifici che hanno portato a tali conclusioni si trovano nelle Appendici iniziali del presente libro. Naturalmente, la visione di questo libro è una visione metafisica e non scientifica o di fisica teorica, e l’obiettivo principale è quello di trovare delle connessioni con le antiche tradizioni mistiche ed esoteriche, in particolare Induismo ed Ebraismo, tale per cui, tra le altre cose, viene considerata la costante induista della suddivisione in 7 loka principali, poi in 49, e così via. La motivazione di tale scelta esoterica nell’Induismo, potrebbe essere uno dei misteri della creazione. Come, d’altronde, misteri della creazione restano i parametri specifici che hanno permesso lo sviluppo della vita fisica, in questo universo, in organismi complessi, per di più, dotati di coscienza ed intelligenza, come gli esseri umani. Così la specifica suddivisione in sette, è un parametro essenziale nell’esoterismo hindū ad indicare sei biforcazioni spaziotemporali che hanno una relazione particolare con il karma della razza umana. Queste sei diramazioni, in rapporto ai sette loka, o mondi, sarebbero le seguenti:
1) Satyaloka-Taparloka
2) Taparloka-Janarloka
3) Janarloka-Maharloka
4) Maharloka-Svarloka
5) Svarloka-Bhuvarloka
6) Bhuvarloka-Bhūrloka
Queste sei biforcazioni (sette, se consideriamo quella che ha portato all’esistenza di Satyaloka), avrebbero portato all’esistenza dei sette loka o mondi, di cui il primo, quello da cui derivano tutti gli altri, è il settimo, ma non certamente il primo in senso assoluto, in quanto anche il Satyaloka, deve, coerentemente, essere la biforcazione di qualche altro sistema e così all’infinito, in linea con la teoria MWI. Metafisicamente parlando è però da Satyaloka che la filosofia hindū focalizza la sua attenzione, mondo definito della verità (satya in sanscrito significa verità), come se in quel mondo si celasse il segreto dell’inizio di qualcosa o della fine di qualcos’altro, o entrambe le cose, d’importanza magistrale per l’essere umano. Ogni scelta compiuta può essere, naturalmente, più o meno soddisfacente, ovvero più o meno apportatrice di felicità, ma non possiamo saperlo fino a quando non la compiamo, e decidendo si guadagna qualcosa, ma si perde qualcos’altro e indietro non si può tornare o, almeno, questo è quello che ci hanno sempre detto. Ma se tale visione fosse sbagliata e indietro potessimo tornare per rimediare agli errori fatti, e annullare o mitigare le sofferenze causate o per evitare di perdere qualcosa che perdendolo ci ha profondamente ferito, cosa faremmo? Mettiamo in relazione la teoria MWI con i wormholes o ponti di Einstein-Rosen o cunicoli spaziotemporali, teorizziamo che la coscienza possa sopravvivere alla morte del corpo fisico con un aiuto interpretativo della Orch OR theory di Hameroff-Penrose (Hameroff S. e Penrose R., Consciousness in the universe. A review of the ‘Orch OR’ theory, Physics of Life Reviews, 2014;11(1):39-78, Hameroff S. e Penrose R., Reply to criticism of the ‘Orch OR qubit’–‘Orchestrated objective reduction’ is scientifically justified. Physics of Life Reviews, 2014;11(1):104–112), attribuiamo alla coscienza la capacità di far collassare la funzione d’onda e di creare la sua realtà, interpretando il biocentrismo di Lanza-Berman (Lanza R. e Berman B., Biocentrismo, Il Saggiatore, 2015) e forse il risultato potrebbe essere quello che intendo per reincarnazione inserita in un contesto multiversale. Ora poniamo che la coscienza spirituale, in linea con l’Induismo e le altre religioni, sia sinonimo di autoconsapevolezza e di beatitudine e che tale stato spirituale sia una particolare frequenza quantistica connessa ad un mondo preciso, che gli antichi hanno chiamato “mondo della verità”, e al quale hanno collegato l’età dell’oro, cioè della maggiore espressione della spiritualità, della beatitudine e del dharma, ovvero il Satyayuga. È naturale che, stiamo parlando, attraverso un’interpretazione della teoria MWI, del pianeta Terra in un lontanissimo passato, di cui le maggiori tradizioni antiche hanno conservato il ricordo, in cui regnava una felicità totale e generale, da quest’epoca di tale felicità come siamo arrivati alle connotazioni che caratterizzano quella attuale? Con il passare del tempo? No, il tempo, in realtà, anche secondo l’Induismo è un’illusione, come secondo la fisica, siamo arrivati, qui e ora, attraverso specifiche scelte, che hanno portato a biforcazioni spaziotemporali sempre meno in affinità con la particolare frequenza che caratterizzava quel “lontano” mondo. Ma se, ipoteticamente, fosse possibile “viaggiare nel tempo” attraverso i wormholes non potremmo “trasferirci” una volta morti in questo mondo nell’universo parallelo di quel mondo spirituale? Secondo l’Induismo no, è necessario per l’anima percorrere il sentiero a ritroso, e questo è il senso più esoterico di percorso spirituale e di purificazione, nonché di redenzione. Ovvero, secondo tale visione, per la coscienza non sarebbe possibile compiere tutti i possibili salti quantistici, ma solo alcuni. Da quell’epoca “remota” del Satyayuga in quel lontano mondo, Satyaloka, la nostra coscienza è come se si fosse modificata, ed è la sua frequenza ad essersi modificata, ora la nostra coscienza è sintonizzata come le onde radio sulla particolare frequenza di questo globo, in quest’epoca, ovvero Bhūrloka, nel Kālīyuga, perché, come descritto al cap. 7, seconda sezione (vedere Kaku M., Mondi paralleli, Codice edizioni, 2006) ogni mondo si differenzia dall’altro per la sua specifica frequenza e per poter connettersi a quel particolare mondo è necessario che la nostra coscienza si sintonizzi su quella frequenza, escludendo tutte le altre e quindi escludendo tutti gli altri mondi dalla propria percezione (a proposito di tali frequenze e la loro relazione con l’Induismo ne parleremo più avanti nel capitolo). Sembrerebbe, però, come ho detto, che ci siano dei limiti, almeno per l’Induismo. Una coscienza, la cui frequenza è quella connessa al Kālīyuga, quindi connessa a Bhūrloka, non può compiere un salto quantistico a tal punto da sintonizzarsi su Satyaloka. È necessario andare per gradi, ovvero: Bhūrloka-Bhuvarloka-Svarloka-Maharloka-Janarloka-Taparloka e infine Satyaloka, non perché non sia quantisticamente possibile, compiere tali salti, in quanto lo spazio, come il tempo, sono illusori e tutti gli stati, in meccanica quantistica sono contemporaneamente sovrapposti e sovrapponibili, in realtà non vi è distanza è tutto qui e ora, l’unica distanza sono le dissincronie tra frequenze diverse, ma in linea di principio, tutto è accessibile, ma sembra sia proprio un limite insito nella condizione umana, piuttosto che un limite fisico, forse autoimposto, o forse no. Ciò che intende l’Induismo è che non si possono cambiare le frequenze della nostra coscienza a nostro piacimento, solo perché lo vogliamo, sarebbe, facendo un grossolano esempio, come un uomo pigro che se ne sta a sedere e a mangiare tutto il giorno e che all’improvviso diventa pieno di muscoli, solo perché lo desidera, o più semplicemente e più idoneamente, superare in un attimo tutte le esperienze negative che ci appartengono, come i ricordi dolorosi, il rancore, le invidie, gli amori infranti, la tristezza, la depressione, l’odio, le invidie, ecc…. Cambiare frequenza nella direzione di Satyaloka richiede duro lavoro, duro sacrificio, ma soprattutto la capacità di sondare autonomamente l’inconscio e quella di mantenere la continuità di coscienza, senza alcuna interruzione, attraverso gli avasthā induisti (stati) tra veglia, sogno, sonno profondo e quarto stato, cioè lo stato superconscio o spirituale, come vedremo, nel dettaglio, alla sesta sezione. Allo stato attuale, in condizioni normali, non ha senso parlare di continuità di coscienza quando, spesso, eccetto rare eccezioni, durante lo stato onirico non siamo, generalmente, consapevoli del fatto che stiamo “sognando” e al risveglio, non sempre ricordiamo i sogni fatti, per non parlare dello stato NREM, o sonno profondo, dove il divario con la coscienza di veglia (l’unica della quale possiamo affermare di essere, fino ad un certo punto, realmente coscienti) si fa ancora più ampio, come di divario possiamo parlare tra coscienza conscia, subconscia, inconscia e superconscia. La frequenza cambia quando è cambiata la coscienza e la coscienza cambia quando abbiamo fatto un vero lavoro d’introspezione e di purificazione interiore, possiamo ingannare noi stessi e gli altri ma non le frequenze e le leggi dell’universo. Questa è una parte del concetto hindū di karma ed è alla base del concetto metafisico di percorso spirituale e iniziatico. Motivo per cui dissento da coloro che seguendo alcune correnti New Age, utilizzano la meccanica quantistica per affermare che ognuno è in grado di cambiare la propria realtà fenomenica, come desidera, facendo collassare la funzione d’onda nella direzione prospettata, non è così. Ammettendo che, attraverso la propria coscienza, l’essere umano sia in grado di guidare il collasso della funzione d’onda e paragonando il concetto di karma maturato (prārabdhakarma) alle funzioni già collassate o a quelle che stanno collassando (samcitakarma) in una direzione specifica, l’Induismo su questo punto è chiaro, è possibile modificare il karma, quindi cambiare la propria realtà, quindi, eventualmente, guidare consapevolmente i collassi delle funzioni d’onda a noi connesse, solo attraverso il quarto stato, quello superconscio, turīya, lo stato spirituale e in nessun altro modo e questo perché la maggior parte delle intenzioni volitive, quelle legate alle tendenze karmiche profonde (vāsanā) si manifestano ad un livello inconscio, raramente subconscio, mai a livello conscio, credere quindi di cambiare la propria realtà, sostenendo di far collassare le funzioni d’onda attraverso pensieri volitivi coscienti, da un punto di vista hindū, è impossibile. È necessaria una sfera della coscienza che sia oltre l’inconscio, lo inglobi e lo trascenda mantenendo la consapevolezza, l’identità di sé o continuità di coscienza, e questa componente è conosciuta nel vedānta hindū come il quarto stato (turīya). Ma raggiungere il turīyāvasthā, secondo la filosofia induista non è affatto una passeggiata, è necessario un lavoro profondo, catartico e soprattutto accompagnato da vere pratiche spirituali, questo è il senso più profondo di percorso spirituale yoga (sādhanā) e il motivo per cui, tale percorso, è il fondamento dell’Induismo, senza il quale tutto il resto è mera disquisizione. Ogni avasthā è sintonizzato su un chakra e su un loka specifico e sugli (infiniti) mondi di probabilità corrispondenti, quindi gli avasthā in relazione all’essere umano, escludendo i pātāla, sono sette. Ma perché sette avasthā, sette chakra e sette loka, e non otto, sei, ecc…? In relazione alla meccanica quantistica e alla teoria MWI, si potrebbe dire che l’onda è collassata sette volte (incluso lo stato quantistico che oggettiva Satyaloka) in direzioni spazio temporali specifiche necessarie a creare i presupposti per l’esistenza dell’essere umano in questo universo, ed è collassata, ulteriormente, anche all’interno di ogni loka ma in maniera diversa cioè mantenendo un’interazione più stretta con ognuno dei sette principali mondi (saptaloka), in un totale di 49 collassi d’onda, in stati quantistici definiti, ed è possibile credere che ogni qualvolta l’onda collassava in uno stato definito, si creasse uno stato quantistico “gemello” ma speculare? E tali stati speculari ad ogni loka, potrebbero essere fatti corrispondere con i pātāla e gli asura, quelli che, in ambito giudaico-cristiano, vengono definiti inferni e demoni? A questo punto tali stati quantistici speculari sarebbero, anch’essi, dapprima sette e successivamente 49. Novantotto stati quantistici tutti in relazione all’essere umano e, probabilmente, ad altre linee evolutive ad esso connesse. Quando si tratta, in esoterismo, di linee evolutive tra loro connesse (come esseri umani, angeli o deva e demoni o asura), s’intende che in qualche modo sono entangled, quindi sono connesse ad uno stesso collasso d’onda e originano dallo stesso collasso d’onda iniziale. Tutti gli altri infiniti collassi d’onda non potevano portare alla creazione dell’essere umano, ma solo questi sette, è necessario, dunque, secondo questa prospettiva, postulare alla base, l’esistenza di un progetto definito, ragione per cui siamo nell’ambito della metafisica. Il numero di collassi d’onda che sono in relazione all’essere umano spiegherebbe il perché della costante presenza dei medesimi numeri sacri nelle tradizioni mistiche ed esoteriche antiche. E Dio può esistere in questa prospettiva? Credo che, indipendentemente dal concetto personale che ognuno può avere di Dio o del Divino, qualcuno o qualcosa deve aver fatto collassare l’onda in un determinato modo per creare le condizioni perché l’essere umano nascesse, questa è la definizione più consona di Dio in uno schema come questo. Deve esserci qualcosa di più grande, anche se non so in che direzione, che ha già pensato una realtà in cui noi potessimo esistere perché altrimenti, come sarebbe possibile, ad esempio, che quando un individuo, ipoteticamente, provoca un collasso della funzione d’onda si porta dietro miliardi d’individui che continuano a esistere nella sua realtà che lui stesso avrebbe prodotto attraverso quello specifico collasso d’onda? Come conciliare gli specifici collassi d’onda di miliardi d’individui con il suo? Anche fossimo in grado di provocare, a condizioni precise, dei collassi d’onda, tali collassi è chiaro che avvengono all’interno di dimensioni specifiche e quindi sono già vincolati a qualcosa, e tali dimensioni di esistenza sono il risultato di collassi d’onda tra infinite onde di probabilità causati da una coscienza o entità che deve necessariamente essere più grande di noi, includerci e trascenderci. In altre parole, noi pensiamo, e desideriamo, all’interno di una realtà che è già stata pensata, e desiderata, e i nostri, ipotetici, collassi d’onda avvengono all’interno di un collasso d’onda più grande, all’esterno del quale, forse non esistiamo, o perlomeno, non mantenendo la coscienza di noi stessi, la nostra identità. Dio è, secondo questo sistema, colui che ha prodotto questo enorme collasso d’onda che ha permesso questo universo, ma non uno a caso tra gli infiniti universi, ma proprio lo stato quantistico che permettesse di sviluppare la vita e la coscienza dell’essere umano, per come noi la conosciamo. Forse è in questo senso, che è il creatore delle nostre monadi ed anime. Anche per questo, in tale prospettiva, il sistema teorico di questo libro non può essere, in alcun modo, considerato scientifico, perché c’è bisogno d’inserire una variabile che non è, se non attraverso (almeno per ora) dei ragionamenti metafisici, non solo dimostrabile ma anche disquisibile, ossia: Dio, il Divino, Coscienza universale ed intelligente, Bhagavān, Īshvara, Yahweh, o comunque lo si voglia definire. La variabile divina, in questo contesto, non è affatto secondaria, in quanto è proprio attraverso la sua Coscienza che si sono verificati i collassi d’onda più importanti che hanno oggettivato gli stati all’interno dei quali noi siamo, esistiamo e viviamo e possiamo oggettivare i nostri relativi collassi d’onda. È attraverso i collassi d’onda effettuati dalla Coscienza del Divino che si sono oggettivati specifici stati quantistici, come i sette stati fondamentali, definiti, appunto, loka, che poi diventano quarantanove, ecc… all’interno dei quali le monadi possono fare le loro esperienze karmiche. In questo modello è dunque contemplato uno specifico progetto o disegno divino, realizzato da una Coscienza, per qualche ragione, più grande e sviluppata della nostra, che ha deliberatamente deciso di far collassare l’onda sette volte, in particolari stati, ciascun stato altre sette volte, in altri stati specifici, e così via, strutturando, secondo regole precise, il nostro multiverso, in modo da fornire, attraverso modelli e vincoli “pre-definiti”, il campo di esperienza e manifestazione delle monadi umane (paramātman) e, verosimilmente, non solo a loro. Dio è, metafisicamente parlando, colui che, per motivi a noi sconosciuti, ha la capacità di far collassare la funzione d’onda in direzioni definite, attraverso un atto di volontà, definita per questo Volontà divina. In parte i paramātman (monadi), i figli di Dio, hanno ereditato questa capacità per strutturare la loro specifica linea evolutiva composta, secondo la metafisica hindū, da sei specifici kosha/ahamkāra (corpi/ego). Nonostante le linee temporali collegate ad ogni singolo paramātman siano potenzialmente infinite, attraverso degli specifici atti di volontà, il paramātman ha il potere di selezionare sei linee temporali definite, all’interno delle quali esistono, vivono ed operano sei ego (ahamkāra) altamente qualificati e specializzati che consentono le condizioni migliori di evoluzione del vero sé (paramātman), in ognuno dei sei loka (Taparloka, Janarloka, Maharloka, Svarloka, Bhuvarloka e Bhūrloka), successivi a quello monadico (Satyaloka). Ognuno di questi sei ego, oltre ad interagire l’uno con l’altro, è dentro ad un sistema secondario di reti interazionali, ovvero, è connesso alle numerose (potenzialmente infinite) versioni di sé che sono all’interno di copie diverse dello stesso loka. Delle due modalità interazionali la più determinante è quella relativa ai sei kosha, appartenenti a loka differenti, contemplati, per questo, dall’Induismo. Con il procedere dell’evoluzione monadica tutte queste probabili versioni di ciascuno dei sei principali ego (abitanti in versioni diverse di Bhūrloka, Bhuvarloka, Svarloka, ecc…) vengono riassorbite, ogni categoria egoica viene assimilata in quello specifico ego che il paramātman considera principale per il corrispettivo loka. I sei principali kosha/ahamkāra connessi al paramātman, formano la principale linea evolutiva di quella monade. La monade evolve attraverso e per mezzo dei suoi ego. Al momento della morte e della conseguente disgregazione di un kosha, l’ahamkāra (ego), il quale è un insieme specializzato d’informazioni quantistiche, in linea generale, viene assorbito da un altro ego in uno dei mondi dello stesso loka, o di un loka differente nel caso, invece, che l’ego trasmigrato abbia assorbito in sé, quindi, le versioni di se stesso (che gli necessitano per la sua evoluzione) appartenenti allo stesso loka. È sempre il paramātman che seleziona tra tutti i probabili ego, di tutte le possibili linee spaziotemporali, all’interno dei sei loka, i sei principali ego che formano la sua linea di evoluzione primaria. La selezione, e il conseguente assorbimento, degli insiemi di ego appartenenti allo stesso loka, così come l’assorbimento di ciascuno dei sei principali ego, sono strettamente connessi alle fasi del sentiero spirituale (chela, putra e dikshaka o discepolo, figlio spirituale ed iniziato). Il concetto di karma, s’inserisce all’interno di questo quadro, in cui le scelte di ogni ego/ahamkāra interferiscono ed influenzano quelle degli altri, in un sistema molto articolato e complesso connesso ai diversi loka e alle diverse linee temporali. Da ciò si evince, anche, che affermare, come spesso accade in alcuni ambiti New Age, che tutto, nell’universo, è connesso non è rilevante, rispetto a quello che mi interessa definire in questo libro. Non è necessario stabilire se il campo unificato fondamentale, in fisica teorica, stabilisca o meno, che tutto sia interconnesso a tutto, o se, fondamentalmente, sia un campo unificato di coscienza, non lo è ai fini del sistema che si struttura sui kosha/ahamkāra e sui loka/yuga, ovvero, i corpi/ego e le linee spaziotemporali. Questo perché, per quanto, potenzialmente, e in teoria, tutto possa essere, ad un livello fondamentale della materia, in relazione ed interconnesso, non credo che ogni parte sia interconnessa ed interagisca con l’altra, con la stessa intensità interazionale. In funzione di ciò che ho finora sostenuto, ma anche dei principi fondamentali del concetto di entanglement quantistico, non sono sufficienti due “enti”, come due particelle, in qualsiasi condizione, per parlare di stato entangled, ma necessitano condizioni specifiche. Non è neanche sufficiente lo stato della particella, bensì lo stato generale del sistema di cui tale particella farebbe parte, ed è proprio questo che ritengo, con le necessarie approssimazioni (necessarie in quanto si passa in un ambito non più, neanche teoricamente, scientifico, bensì metafisico), compatibile con il concetto di alter ego (versioni temporali diverse dello stesso ego) viventi in mondi paralleli (versioni temporali diverse dello stesso mondo), entangled tra loro. C’è una rete d’interazioni che passa da una rete fortemente entangled, tra i sei principali kosha/ahamkāra dello stesso sé primario o paramātman, rispetto ai sei loka che strutturano la manifestazione in una prospettiva hindū, quindi all’interno di un sistema “entangled” altamente specifico, per passare ad una rete interazionale costituita dalle interazioni di tutti i probabili (potenzialmente infiniti) alter ego di ciascuno dei sei principali ego suddetti, all’interno di versioni differenti del medesimo loka, dunque, di un sistema sempre fortemente interconnesso, ma meno specifico del precedente, sino a quella rete interazionale che coinvolge tutte le monadi, e i relativi alter ego, alle quali (karmicamente, si direbbe utilizzando un’accezione hindū) il paramātman è intensamente legato, per finire a tutta la rete sempre più espansa d’interazioni che coinvolge legami via via più generali, dunque più blandi e sempre meno specifici, tali reciprocità sarebbero relative ad un’origine comune di tutte le monadi umane. Inoltre, da tenere presente che tali esperienze interattive non esisterebbero nell’universo, in senso lato, ma all’interno di versioni spaziotemporalmente diverse dello stesso pianeta Terra (conformemente alla concezione hindū di loka e yuga), all’esterno delle quali non vi sarebbe alcun entanglement significativo, almeno secondo un’esperienza altamente specifica e qualificata del proprio sé. Le condizioni fondamentali di questi entanglement sono intanto la comune origine dei kosha/ahamkāra, relativamente ad ogni singola entità, ovvero il proprio paramātman, monade o sé profondo, poi l’indissolubile (e misterioso) legame tra le monadi umane e il pianeta Terra, nonché alcune particolari relazioni karmiche, considerato che queste influenze reciproche con terze persone hanno una forte valenza, sempre, rispetto alle profonde relazioni che hanno con tutti i rispettivi kosha/ahamkāra nei diversi mondi, risultato di particolari legami specifici e per questo fondamentali. Anche il senso di astrologia inteso qui, come spiegato al capitolo Entanglement, astrologia esoterica e assetto energetico di questa sezione, è tutto in relazione alle diverse linee temporali di questo pianeta per quanto, l’astrologia stessa, ipotizzi l’esistenza d’interazioni fondamentali tra pianeti dello stesso sistema, sistemi planetari della stessa galassia, ecc… Il concetto, quindi, secondo cui, tutto è connesso a tutto, dunque tutto è uno e io sono “te”, “egli”, o “loro”, per quanto non intenda entrare nel merito di tale asserzione, non è ciò che intendo per sistema entangled in questo contesto e che, sebbene, fino ad un certo punto, il concetto d’interconnessione universale senza il mantenimento di tante coscienze individualizzate, sia in linea con il vedānta non dualista (advaitavedānta), non è del tutto in linea con il vedānta dualista-non dualista (dvaitādvaitavedānta) e, ancor meno, con il vedānta dualista (dvaitavedānta). Quello che mi propongo di stabilire qui, sono primariamente, le condizioni attraverso cui, partendo da un punto di vista metafisico hindū, ognuno ha, e conserva, la coscienza di sé. Non sto negando la possibilità che, alla fine, verosimilmente, ogni cosa sia connessa all’altra, ma credo che il concetto metafisico, che “ognuno sia l’altro”, si possa riferire, in teoria, eventualmente, ad un livello della coscienza/materia, tale per cui non ha neanche, forse, più molto senso disquisire di coscienza, perché, anche qualora, persistesse un'”essenza”, a cui poter attribuire ancora tale significato, sarebbe, probabilmente, molto lontana da ciò che percepiamo ora come coscienza di sé, per riconoscerla e definirla come tale, inoltre, il concetto stesso di entanglement, presuppone che ci siano definite condizioni di base, non generali o generalizzabili, perché lo stesso si verifichi. Quanto sinora detto, prevede, naturalmente, l’esistenza di un progetto definito e strutturato secondo ragioni che esulano dal territorio d’indagine della scienza e del metodo tradizionale scientifico e, nel caso specifico, della fisica, compresa la fisica e la meccanica quantistica, siamo dunque, chiaramente ed indiscutibilmente, in un ambito prettamente metafisico. D’altronde, è vero anche, come sostiene il saggista, filosofo e giornalista statunitense, nonché studioso di filosofia e matematica, Jim Holt (Holt J., Perché il mondo esiste? UTET Edizioni, 2013) che da un punto di vista strettamente scientifico, per come s’intende la scienza occidentale che si basa sul cosiddetto “rasoio di Occam”, quel principio metodologico alla base della scienza moderna, il quale sostiene, in essenza, che è del tutto inutile e inefficace moltiplicare le ipotesi, quando quelle presenti sono adeguate a spiegare un determinato fenomeno, è necessario ma soprattutto funzionale, cercare, sempre, la soluzione più semplice. In base a questo principio, in effetti, è già, in qualche modo un paradosso che, anziché il nulla, esista qualcosa, dal momento che il nulla è la soluzione più semplice che ci sia. Jim Holt, definisce questa ipotetica dimensione massimamente vacua con i termini “Mondo Vuoto”, cioè un “mondo” privo di uno spaziotempo e quindi di qualsiasi evento, soggetto percipiente e oggetti percepiti. Come ricorda Jim Holt, nel suo libro, “Perché il mondo esiste?” (v. sopra), già Leibniz sosteneva che il nulla è l'”oggettività” più coerente e l’esistenza massimamente semplice rispetto a tutte le possibili creazioni che l’essere umano può concepire. In sostanza, se proprio dobbiamo assumere un atteggiamento scientifico che sia il più rigoroso possibile, dovremmo stupirci semplicemente del fatto che esista qualcosa al posto del nulla, maggiormente della presenza di un universo la cui esistenza si basa su parametri specifici e niente affatto scontati e, infine, che tale creazione abbia prodotto, in uno dei suoi molteplici anfratti nello spaziotempo, degli esseri complessi ed autocoscienti come gli esseri umani. Ma dato che, a quanto pare, invece, qualcosa c’è, da un punto di vista metafisico e mistico, all’interno di un universo vasto come questo, quale “luogo” dovrebbero raggiungere gli esseri umani per raggiungere, da una prospettiva mistica e spirituale, la tanto agognata beatitudine spirituale? Ogni tradizione religiosa, mistica ed esoterica definisce tale “casa”, fonte, origine ed obiettivo finale, attraverso termini differenti ed accezioni diverse. Nell’Induismo potremmo associarla a Satyaloka/Satyayuga. Ma dove potremmo, ipoteticamente, collocare questo “luogo” virtuale, nel tessuto dello spaziotempo? Nella prospettiva di questo libro, Satyaloka e Satyayuga sono due modalità, la prima spaziale e l’altra temporale per definire lo stesso evento spaziotemporale. Quindi tale dimensione oltre ad essere un “luogo” è anche un punto specifico nel tempo, in altri termini, il Satyaloka (Satyayuga) hindū è uno specifico evento nello spaziotempo, e rispetto a Bhūrloka è situabile nel futuro ma, a ben vedere, anche nel passato di un ciclo precedente, ed ogni ciclo non potrebbe essere una versione differente dello stesso ciclo, per questo scandito, eternamente, dagli stessi yuga? Se fosse Satyaloka, la “casa” tanto desiderata dalle anime, alla quale l’essere umano attribuisce tutte le maggiori connotazioni positive a tal punto da definirlo come “Paradiso” perduto, causa scatenante di un profondo senso nostalgico per una dimora lontana nel tempo e nello spazio (rispetto al Bhūrloka)? Se la via del ritorno e della trascendenza spirituale fosse il raggiungimento di uno specifico evento nello spaziotempo? Se la strada verso il Divino, fosse qualcosa che ha a che fare con il tempo, oltre che con dimensioni “spaziali” differenti? E questo speciale evento nello spaziotempo sarebbe situato nel passato, nel futuro o, in questo caso, passato e futuro coincidono? Forse è a Satyaloka/Satyayuga da cui trae origine, il ricordo profondo di una dimora “fantastica” e ancestrale in cui regna l’amore e la beatitudine ovunque e che caratterizza uno dei principali fondamenti delle religioni. Se calcoliamo anche i sette inferni hindū, o pātāla, otteniamo altre sette frequenze di base, nonché altre sette principali biforcazioni spaziotemporali, che partono da questo mondo e dalla sua frequenza, allontanandosi ulteriormente da Satyaloka, e credo, sia plausibile, in linea anche con ciò che afferma l’Induismo, che più la coscienza si allontana dalla sua frequenza originale e più si perde in “mondi” sempre più “lontani” rispetto a quelli “divini”, mondi in cui, le scelte fatte hanno portato a dei veri e propri “inferni”, i pātāla, dicono i testi sacri hindū, sono mondi popolati dai “demoni”. Le sette biforcazioni originano da Bhūrloka e sono:
1) Bhūrloka/Atala-loka
2) Atala-loka/Vitala-loka
3) Vitala-loka/Sutala-loka
4) Sutala-loka/Talātala-loka
5) Talātala-loka/Rasātala-loka
6) Rasātala-loka/Mahātala-loka
7) Mahātala-loka/Pātāla-loka
Calcoliamo così 14 mondi e 13 biforcazioni spaziotemporali principali che diventano 14, considerata quella che ha portato in essere lo stesso Satyaloka. È indubbio che non sia semplice capire perché proprio tali suddivisioni. In realtà, anche la copresenza di duecento parametri fisici che hanno permesso in questo universo, e nel nostro sistema solare, la nascita dell’essere umano, è senza una spiegazione esaustiva. Perché, qualcosa di altamente improbabile come la coesistenza di tutti questi parametri insieme in una sola volta, così finemente regolati per la vita, si è palesata a tal punto da permettere la vita ad un livello di complessità tale da causare l’origine dell’essere umano? Anche se ciò che qui viene sostenuto, a differenza dei parametri fisici che hanno permesso la vita, non è scientificamente dimostrato. Ma perché proprio sette loka, sette upaloka, sette chakra, sette forze principali (in relazione alla conformazione strutturale dell’essere umano), ecc…? E perché le dodici costellazioni, i dodici aditya, le dodici tribù d’Israele, i dodici discepoli, ecc…? Può avere un senso, forse, e forse no. Rimane comunque singolare, ciò che ha creato i presupposti per la vita in questo universo, perché, solo fermandoci a questo, non vi è niente di normale, prevedibile, calcolabile o scontato. Come ci ricordano lo scienziato Robert Lanza e l’astronomo Bob Berman (Lanza R. e Berman B., Biocentrismo, Il Saggiatore, 2015), le leggi dell’universo, sembrerebbero formulate progettualmente per realizzare la venuta in essere della vita animale. Nel loro libro, R.L. e B.B., proseguono descrivendo tre, dei duecento parametri fisici, che sarebbero finemente regolati per la vita. Uno è il Big Bang, il quale, se fosse stato solamente un milionesimo più potente, l’espansione sarebbe stata così rapida da impedire alle galassie e, quindi alla vita, di svilupparsi. Il secondo esempio, è l’interazione nucleare forte, la quale se fosse diminuita solamente del 2 per cento, i nuclei atomici non avrebbero potuto compattarsi e in tutto l’universo ci sarebbe solo un atomo: l’idrogeno, impedendo lo sviluppo degli atomi più complessi e quindi la nascita della vita per come noi la conosciamo. Terzo, se l’attrazione gravitazionale fosse appena inferiore, né il Sole e né le altre stelle potrebbero bruciare, e sono solo tre dei duecento parametri identificati dalla fisica. Tornando ai 98 mondi paralleli e coesistenti, essi costituiscono il campo spaziotemporale maggiore di esperienza per le entità umane. Sono 98 copie alternative dello stesso universo, nello stesso sistema solare, nello stesso pianeta, in tempi e spazi quantistici diversi. Sono molto ben “isolati” l’uno rispetto all’altro, ma a certe condizioni e in certi casi, come vedremo, possono aprirsi dei cunicoli spaziotemporali, i ponti di Einstein-Rosen o wormholes, attraverso i quali la coscienza, che è un sistema quantistico, come abbiamo precedentemente visto, può percepirne l’esistenza, sino, attraverso la morte fisica (in questo universo), emigrare in un altro mondo, in un altro universo spaziotemporale, all’interno, specificatamente, di questi 98 (ma, in linea con il concetto d’infinità dei mondi, anche “altrove”), ma credo sia ovvio, seguendo il principio d’infinità dei mondi e rispettando il parametro esoterico hindū della suddivisione in sette, che a loro volta anche gli upaloka o submondi siano, ciascuno, suddivisi in sette ulteriori linee spaziotemporali, fornendo un numero di 686 mondi (98 ×7), poi 4.802 (686 ×7), 33.614 (4.802 ×7), 235.298 (33.614 ×7), 1.647.086 (235.298 ×7) mondi, e così via all’infinito, e la coscienza, teoricamente, può incarnarsi in uno qualsiasi di tutti questi (infiniti) mondi, ognuno caratterizzato da una specifica frequenza di base. Nei capitoli successivi di questa sezione, come nella successiva sezione, affronteremo gli argomenti attraverso diversi livelli interpretativi, quando attraverso un linguaggio mistico, quando strettamente esoterico e quando attraverso concetti più in linea con aspetti speculativi della fisica teorica. La scelta di continuare ad utilizzare, ancora, in certi casi, termini quali: “sottili”, “veicoli”, ecc…è perché da questo mondo, è così che vengono percepite le altre realtà fisiche, ovvero, sottili ed evanescenti, pur essendo costituite della stessa materia dei nostri corpi. Tali interpretazioni sono il risultato delle numerose percezioni che hanno caratterizzato gli esseri umani come conseguenza dell’interazione inconsapevole tra mondi paralleli, trattandosi di percezioni, generalmente, non fisiche sono state relegate nell’ambito del soprannaturale, in cui termini come “etereo”, “sottile”, “spirito”, “disincarnato”, ecc…hanno una loro collocazione. Detto questo, sia l’esperienza dell’individuo rispetto a tali enti e sia ciò che realmente potrebbero essere, sono aspetti entrambi fondamentali per una più completa comprensione del fenomeno nella sua complessità. Anche l’esperienza individuale, nonché collettiva, rispetto ad un fenomeno per quanto di natura soggettiva, può dirci molto sulla natura di tale fenomeno. Sono due visuali diverse, attraverso cui viene analizzato lo stesso evento, una è strettamente soggettiva, ma non meno importante o, in certi casi, illuminante, e ci parla di come queste realtà fisiche, interferendo tra loro, creano il vissuto soggettivo individuale di ognuno. L’altra visione, analizza la situazione da un punto di vista esterno, più “oggettivo”, ma non ci racconta niente di quello che è il sentire personale rispetto a tali fenomeni, aspetto invece approfondito da diversi settori dell’Induismo, dalla teosofia e da altre tradizioni mistiche ed esoteriche. Non ritengo che un aspetto debba prevalere sull’altro, ma che entrambi debbano avere il loro ruolo. Si può descrivere tecnicamente cosa accade durante un’esperienza estatica come il samādhi (cambiamenti nella respirazione, cambiamenti metabolici cerebrali, cambiamenti termici, cambiamenti nell’attività elettrica del cervello, ecc…), come descrivere ciò che emotivamente si prova vivendo tale esperienza mistica. Entrambi gli approcci ritengo siano fondamentali per una più completa comprensione di fenomeni “borderline” come quello dell’estasi mistica. È necessario, per poter comprendere come le energie esoteriche, quali le emanazioni o forze, agiscono individualmente, e come vengono percepite soggettivamente, affrontare la questione da un punto di vista mistico, come già fece la Bailey con i sette raggi, in quanto essendo aspetti che agiscono, conformemente alla loro natura, su di noi, abbiamo con essi una forte familiarità, e li percepiamo direttamente e continuamente, sebbene, l’essere umano, non conosce, normalmente, a quali fattori o elementi attribuire tali sensazioni o percezioni. Motivo per cui a tratti continuerò ad utilizzare termini tipici di un’ambientazione esoterica e mistica, pur tenendo a sottolineare cosa, realmente, intendo per: “sottili”, “corpi”, “anima”, “loka” e tutta una terminologia specifica utilizzata in un ambito spirituale, religioso, mistico ed esoterico. Come abbiamo visto, tutti i loka derivano (anche se non è possibile dare un inizio, visto che il tempo è un’illusione) primariamente da Satyaloka, il mondo della verità, che è nella filosofia induista, il mondo più spirituale ed anche, ragionando in termini temporali, il più antico. Traslando questo concetto alla teoria MWI, ciò significa che questo loka rappresenterebbe il mondo “originale”, almeno per quanto concerne l’inizio di quelle diramazioni spaziotemporali con le quali l’essere umano è, in questo particolare momento evolutivo, particolarmente collegato. Come suddetto, gli altri sei loka successivi a Satyaloka, sono sei linee spaziotemporali che da esso si sviluppano. Nell’Induismo ogni loka viene definito più o meno spirituale o più o meno materiale, il concetto di spirituale in tale filosofia, è direttamente connesso alle tre frequenze primordiali della materia: sattva guna, quella più spirituale, rajas guna, quella intermedia, e tamas guna, quella meno spirituale. Si parla, nei testi sacri, di guna o qualità della materia primordiale (Mūlaprakriti), paragonati a vibrazioni fondamentali di questo campo unificato universale, definite spanda o kshoba. Come ci ricorda il fisico Michio Kaku (Kaku M., Mondi paralleli, Codice edizioni, 2006), in riferimento alla teoria dei mondi paralleli, pur provenendo da uno stesso stato di coerenza quantistica (quando specifiche diramazioni spaziotemporali non si sono ancora oggettivate, ma si trovano in un universo di probabilità, ovvero, in termini quantistici, la funzione d’onda non è ancora collassata. V. cap. 7, seconda sezione), e quindi partecipando originariamente ad un’unica frequenza, al momento della biforcazione spaziotemporale, le frequenze si differenziano. Quindi, spiega Michio Kaku, tali mondi paralleli potrebbero essere caratterizzati da onde che vibrano a frequenze diverse e che ne contraddistinguono l’energia specifica. Trasliamo tutto questo ai guna hindū che caratterizzano i loka in proporzioni diverse a seconda della loro maggiore o minore spiritualità, e otteniamo i sette loka suddetti, tra i quali la frequenza primaria è quella che contraddistingue Satyaloka, il mondo della verità, con una maggiore concentrazione di sattva guna, rispetto alle altre sei frequenze caratterizzanti gli altri sei loka. È chiaro che, in questa prospettiva, ciò che distingue un mondo da un altro, e quindi un universo da un altro, sono frequenze diverse e non leggi fisiche, necessariamente, differenti. In questa prospettiva, ogni loka è associato ad una specifica frequenza e, di conseguenza, ad uno specifico yuga (età planetaria hindū), e ciascuno di essi ha all’interno infiniti submondi o subloka, tutti caratterizzati da subfrequenze della frequenza caratteristica del loka di appartenenza. Ogni upaloka si troverebbe in uno specifico punto dello spaziotempo all’interno dello yuga associato a quel particolare loka. A seconda della maggiore o minore spiritualità di ogni yuga, la presenza del sattva guna (la qualità o vibrazione più spirituale della materia) è maggiore o minore. Il Kālīyuga è quello che ne è maggiormente privo, ed è associato, tradizionalmente, al loka considerato più materialista e, quindi, in cui la coscienza è maggiormente ottenebrata dal tamas guna (la qualità o vibrazione meno spirituale della materia), ovvero Bhūrloka, riduttivamente, tradotto come piano fisico, cioè questo, ma considerato il fatto che, come spiegato, sono tutti loka fisici e quindi piani fisici, la definizione più specifica dovrebbe essere piano materialista, nell’unico senso di essere caratterizzato da una frequenza con maggiore quantità di tamas guna e, conseguentemente, abitato da individui la cui coscienza per potersi sintonizzare nello stesso stato quantistico deve essere a sua volta, caratterizzata da una maggiore presenza dello stesso guna. Nella prospettiva di questo testo, Bhūrloka, viene circoscritto, tradizionalmente ad un periodo temporale definito, conosciuto, appunto come età di Kālī, età nera o età del ferro (secondo la tradizione greca), ad indicare la maggiore polarizzazione della coscienza individuale e collettiva a livello terreno. Gli altri loka sono qualificati ognuno da frequenze diverse che devono essere in sintonia con le rispettive frequenze delle coscienze degli individui che li abitano. Uno dei principi del sistema teorico qui espresso, è che, anche se non espressamente evidenziato nei testi sacri, essendo essenzialmente, in questa prospettiva, i loka o mondi, tutti costituiti della stessa materia fisica che vibra, però, a frequenze diverse, non è necessario, pensare ad un Satyaloka, ad esempio, come una dimensione eterea, totalmente scissa dal piano fisico, di consistenza “divina”, situata non si sa bene dove. Quello che viene qui sostenuto è che il Satyaloka, come tutti gli altri loka, sono copie alternative, quindi diverse, dello stesso pianeta, il pianeta Terra, non qualche Eden indefinito, in qualche altro “mondo” altrettanto indefinito. Quello che distingue una copia dall’altra è solo lo stato vibratorio. La suddivisione in ere o yuga, non è tanto una questione temporale, quanto vibratoria. In altre parole, può esserci un Dvāparayuga, in un presente alternativo a questo, quindi nello stesso spaziotempo, già inoltrato, perché in quel mondo, di questa stessa epoca, sono state fatte scelte diverse che ne hanno più velocemente modificato la frequenza, aumentando il sattva guna, rendendo, dunque, tutto maggiormente spirituale. Per questo gli yuga sono necessariamente associati ai loka, e per questo tutti i calcoli descritti alla quarta sezione, come tutti i possibili calcoli temporali, in riferimento ai cicli planetari più o meno antichi e recenti, hanno un possibile senso solo in questo specifico mondo, in questa linea spaziotemporale, in questo specifico universo del multiverso. E anche se io stesso faccio uso di termini quali: linea temporale, età, era, passato, futuro, in quanto tali termini, per convenzione, servono a rendere, almeno da un certo punto di vista, più comprensibili certi fenomeni, in realtà il tempo è un’illusione e per quanto tale evidenza sia particolarmente controintuitiva rispetto al nostro modo di osservare e interpretare la realtà, questo è quello che insegnano sia la fisica che l’Induismo. La concezione di tempo è talmente radicata in profondità nel nostro modo di pensare, che persino i fisici nei loro trattati, non possono esimersi da utilizzare termini ad essa associati. Ora, se i vari mondi sono essenzialmente frequenze e se sono copresenti come le onde radio, cosa permette alla nostra coscienza di sintonizzarsi su una stazione alla volta e quindi percepire una frequenza alla volta? La risposta è nei simboli esoterici dello yoga, ovvero i chakra e la kundalinī (per una connessione tra loka, yuga e chakra, v. schema n.11). I chakra sono i ricevitori delle specifiche frequenze che caratterizzano ogni loka ed ogni yuga. Motivo per cui ciascun chakra deve essere associato al corrispettivo loka. Questa è la reale funzione di ogni chakra, e questo è il motivo per cui sono associati a porte dimensionali. La kundalinī indica la nostra coscienza che si sposta da chakra a chakra per permettere la percezione di quel mondo specifico, perché senza coscienza, la consapevolezza della percezione non può esistere. Lo yoga insegna che la kundalinī deve spostarsi da mūlādhāra chakra, quello, rappresentativamente, situato in corrispondenza del coccige, a sahasrāra, rappresentativamente, situato sulla sommità del cranio (per situati s’intende, come vedremo, la rispettiva zona corporea simbolica, in sanscrito: kshetram, e non quella effettiva). Questo è lo scopo primario di ogni anima incarnata, secondo tutto l’Induismo. Significa che mentre siamo incarnati, dobbiamo spostarci attraverso diversi mondi paralleli? Non, in genere, consapevolmente. Premesso che nei testi sacri viene, chiaramente detto, che il risveglio di kundalinī richiede numerose vite, per quanto l’individuo incarnato in uno specifico loka, possa percepire l’esistenza di altre frequenze e quindi di stati coscienziali superiori (o inferiori) relativi ad altri loka, sino a quando sarà incarnato in un particolare mondo, la sua coscienza primariamente rimarrà polarizzata sul chakra specifico che si sintonizza con la frequenza caratteristica di quel mondo, per quanto, attraverso il risveglio di kundalinī e le relative iniziazioni, sia possibile contattare i mondi, o loka, superiori assorbendo, qui consapevolmente, altri stati di coscienza. Nel caso di Bhūrloka il chakra in cui è sintonizzata la coscienza è mūlādhāra chakra, nel caso di Satyaloka è sahasrāra chakra, per fare due esempi. La percezione di altri stati di coscienza, di altre frequenze, e quindi altri mondi (loka) è ciò che caratterizza le esperienze mistiche ed estatiche dello yogi, che in certi casi particolari, come già detto, porta a vere e proprie esperienze soprannaturali e medianiche, queste tematiche verranno, ulteriormente, approfondite alla sesta sezione. Attraverso quest’ultima descrizione siamo arrivati al secondo significato che l’Induismo attribuisce al concetto di sottile e di denso. Il primo è, come già detto, quello associato al mondo microscopico e al mondo macroscopico e l’altro è chiaro, a questo punto, che si riferisce a differenti frequenze caratterizzate dalla presenza di guna, qualità o vibrazioni differenti che caratterizzano onde vibranti associate a frequenze diverse, quindi a diversi mondi. La, tradizionale, maggiore pesantezza e densità del tamas guna rispetto al sattva guna, non caratterizza affatto una differente materia regolata da leggi diverse, perché, come insegna il sāmkhyadarshana, la materia o prakriti è una, e i guna esprimono solamente qualità differenti della stessa materia primordiale. Le caratteristiche associate a tamas guna, indicano esclusivamente, una specifica vibrazione che si associa ad una qualità della materia definita più densa, statica e ottenebrante (rispetto alla coscienza umana), definita per questo più grossolana e materiale e ad un livello coscienziale si associa a percezioni più materialistiche e terrene. Ma anche il sattva guna indica una vibrazione della materia, anche se associata all’aspetto considerato superiore, cioè, libero dall’attaccamento dei sensi e dalla soddisfazione egoistica ed egocentrica. Il secondo significato di denso e sottile associato, tradizionalmente, ai loka e agli yuga, è quello, rispettivamente, di maggiormente materialistico e terreno, da intendere con una maggior presenza di tamas guna (aspetto denso), e di spirituale, da intendere con una maggior presenza di sattva guna (aspetto sottile). Anche qui, ipotizzare una materia diversa, oltre che contrario a ciò che spiegano il sāmkhyadarshana e il vaisheshikadarshana, è inutile. Come già descritto, esaustivamente, al cap.1, prima sezione, i livelli fondamentali di significato della dualità: sottile-denso, considerati in questo libro sono tre. Esiste un terzo livello di significato, da prendere in considerazione, riguardo ai termini: “sottile”, “etereo”, “denso”, “grossolano”, ecc…ovvero, ciò che viene percepito, attraverso esperienze definite straordinarie o “soprannaturali”, ad esempio, per mezzo delle facoltà di chiaroveggenza e di chiaroudienza, che, per definizione, mettono nella condizione l’individuo, di vedere ed udire, forme e suoni che non appartengono a questo mondo ma ad altri mondi. Tali esperienze vengono definite con termini che richiamano alla mente la natura, logicamente, “sottile”, “eterea” ed evanescente di questi eventi, naturalmente rispetto a ciò che percepiamo come tangibile, ma solo perché la caratteristica di tangibilità o esperienza tangibile, è una caratteristica che accomuna coloro che si trovano in uno stato di coerenza quantistica, e non una relazione tra soggetti percipienti decoerenti tra loro, in tal caso questi “contatti” saranno necessariamente connotati da altre caratteristiche, tra le quali, appunto, la loro natura sottile, eterea, evanescente, la parzialità, la collocazione fuori da questo spaziotempo, ecc…Quelli che, quindi, vengono definiti contatti medianici, soprannaturali o straordinari, non hanno a che fare con lo “spirito” di qualche disincarnato, ma rientrano, secondo questa visione, all’interno di specifici contatti con individui appartenenti a mondi paralleli, in carne ed ossa come noi, ma quantisticamente decoerenti rispetto a questo mondo, però entangled. Ma tali interazioni tra mondi, attraverso quali modalità avverrebbero? In funzione degli studi sugli avasthā (stati coscienziali) vedantici, la teosofia ed altro, ho individuato quattro principali modalità interattive. Una è quella più ovvia e totale, la morte fisica, che fa passare la coscienza incarnata da uno stato quantistico definito, e fino a poco prima coerente con un mondo specifico, ad una sovrapposizione di stati all’interno di un’onda di probabilità (v. Appendici) che si oggettivizzerà in un altro stato definito coerente con un mondo differente da quello in cui è avvenuto il decesso, quale mondo, secondo una visione hindū, dipenderà dal karma dell’individuo, e solo relativamente, e in misura diversa, da sua libera scelta. Questa è l’interazione più completa e totale tra soggetti e mondi alternativi, ma in questa interazione s’interrompe “definitivamente” lo stato di coerenza quantistica con il mondo in cui avevamo precedentemente vissuto. La seconda modalità è quella più volte trattata nel corso del libro, ed è caratterizzata dal fenomeno medianico, in cui individui con specifiche caratteristiche, riescono a creare, transitoriamente, uno stato di coerenza con altri mondi, pur restando incarnati in questo mondo, ma perché questo sia possibile devono entrare in uno stato transitorio di decoerenza con il mondo di appartenenza, naturalmente, per tempi limitati e non “permanentemente” come in caso di morte, la “bontà” o meno di tale esperienza, quindi la distinzione tra alta e bassa medianità, dipende dalla specifica natura (frequenza) dei mondi contattati. La terza modalità d’interazione, qui contemplata è quella relativa agli stati onirici (REM) e allo stato di sonno profondo (NREM). Secondo il vedānta, gli stati collegati all’esperienza coscienziale sono, essenzialmente, cinque, quello di veglia (jagrat o vishva), quello di sogno (svapna o taijasa), quello di sonno profondo (sushupti o prājña), quello spirituale connesso all’ātman o anima (turīya) e quello spirituale, superiore al precedente, connesso al paramātman o monade (turīyatita). Sempre secondo una prospettiva metafisica hindū, nella fase di sonno i livelli sono quattro, di cui i primi tre rientrano tradizionalmente nello stato di svapna, per distinguerli dal quarto ed ultimo livello che è sensibilmente differente, in quanto prossimo all’indefinibile quarto stato (turīya), questo quarto livello della fase di sonno, rientra nello stato di sushupti. Secondo il vedānta, questi stati di coscienza si connettono a corpi (kosha) differenti e, quindi, a loka specifici. In questo contesto, i contatti con specifici mondi appartenenti alle diverse categorie dei loka, dipendono da quale dei quattro livelli che distinguono l’esperienza globale del sonno, si attiva. Ogni livello è in relazione a contatti specifici, in quanto viene messo in relazione ad uno dei corpi alternativi (situati in altri mondi), generalmente definiti sottili, come è stato appurato. Il primo livello di svapna è connesso al corpo emotivo (kāmamayakosha), anche se, a volte, viene associato al corpo eterico (prānamayakosha), ma secondo i miei studi, è più indicato associarlo al corpo emotivo, perché il prānamayakosha, nello yoga e nell’āyurveda, come in diversi scritti esoterici (v. ad esempio. Bailey A.A., Trattato sul fuoco cosmico, Il Libraio delle Stelle, 1980. Bailey A.A., Iniziazione umana e solare, Il Libraio delle Stelle, 1950) viene descritto come essenzialmente appartenente al corpo fisico (annamayakosha) e distinto dalla sfera emotiva, basti pensare alla pratica del prānāyāma che, attraverso specifici esercizi respiratori, purifica le nādī, i canali che costituiscono il corpo eterico, le quali non sono affatto costituite di materia emotiva. Tali nādī sono collegate ai cinque prāna che controllano zone precise del corpo fisico, connesse al vata dosha, principio bioenergetico dell’āyurveda, un livello considerato, in tale disciplina, molto prossimo al tangibile, ma l’esperienza onirica, per definizione, coinvolge la componente emotiva. Il corpo emotivo, connesso al primo livello dello stato di svapna o taijasa è quantisticamente coerente a quella categoria di mondi connessa a Bhuvarloka, ovvero quello che la metafisica hindū considera più prossimo a questo (anche se prossimo o distante ad un livello quantistico, in funzione del principio dell’entanglement, non ha senso, la sua prossimità rispetto a Bhūrloka è relativa alla percezione umana, in questo mondo, in condizioni normali, ma in realtà, tutti i loka sono “prossimi”), Bhūrloka, che è quello di veglia (jagrat avasthā) caratterizzato dall’esperienza tangibile. Il secondo livello, della terza modalità interattiva intermondi interno allo stato di svapna, cioè rispetto all’esperienza onirica, coinvolge il corpo mentale (manomayakosha), il quale è situato nella categoria di mondi connessi allo Svarloka, a questo livello di coscienza, l’esperienza onirica è in parte connessa a fasi alterne, al terzo avasthā, sushupti o prājña, in quanto maggiormente caratterizzata da vissuti inconsci e più profondi, rispetto al livello precedente, dei quali, normalmente, non vi è consapevolezza o ricordo, caratteristica, il ricordo dell’esperienza onirica, che specifica invece, il primo livello di svapna. Il terzo, ed ultimo livello, dello stato di svapna, coinvolge il corpo intuitivo (buddhimayakosha o vijñānamayakosha), situato nella categoria di mondi connessi a Maharloka, a questo livello la qualità di queste interazioni, come dei sogni, cambia radicalmente, in quanto siamo al primo vero livello di esperienza spirituale, oltre i tre mondi considerati “inferiori” (Bhūr, Bhuvar e Svarloka), l’esperienza è quindi, per definizione, spirituale e percepita come, sensibilmente, positiva, in quanto è il primo vero livello in cui s’intravedono i veri riflessi di buddhi, l’intuizione spirituale, la cui sede originaria è in ājñā chakra, in Taparloka. Per questa sua connotazione, pur partendo dallo svapnāvasthā, la coscienza interagisce sia con sushupti avasthā, che con turīyāvasthā, anche qui, però, volendo articolare ulteriormente il discorso dipende dalle differenti qualità dell’esperienza onirica in questione e con quali dei mondi connessi a Maharloka, la coscienza individuale, entra in relazione, perché, come già spiegato, di upaloka all’interno di un loka ve ne sono, potenzialmente, infiniti. Questo è lo svapnāvasthā della coscienza, il secondo dopo lo stato di veglia, segue il terzo stato coscienziale, sushupti avasthā. Tale stato, coinvolge il corpo della beatitudine, conosciuto come ānandamayakosha, corpi di questa natura abitano quei mondi che rientrano nella categoria di Janarloka. A questo stadio il livello dell’inconscio (la parte più profonda di citta, in cui sono radicate le vāsanā (tendenze karmiche profonde e radicate) più determinanti, per quanto concerne i tre mondi inferiori e i relativi corpi) che si collega alle cosiddette personalità inferiori, non presenta segreti per la coscienza, vi è totale consapevolezza di questo livello e l’esperienza si fa ancora più spirituale rispetto a Maharloka. Nei mondi connessi a Janarloka la frequenza che caratterizza lo stato coscienziale di turīya, il quarto stato, è sempre più costante e meno discontinua e da qui aumenta gradatamente il contatto con la buddhi che si consolida definitivamente in Taparloka. Quando un individuo situato nel Bhūrloka, attraverso l’esperienza onirica (in realtà, molto raramente), fa esperienza in uno dei mondi relativi a Janarloka, l’intensità di ciò che riporta in questo mondo allo stato di veglia è talmente forte e invasiva che può, letteralmente, modificare tutta la sua vita, sono quelle esperienze a partire dalle quali possono avvenire dei profondi cambiamenti e che vengono, generalmente, definite esperienze trascendentali e spirituali. È plausibile, inoltre, che se tali interazioni avvenissero, avrebbero un effetto cascata allo stato di veglia, condizionando, nel bene e nel male, e più o meno consistentemente, le emozioni, la mente e quindi la percezione generale dell’individuo. La quarta modalità, ed ultima interazione qui contemplata, è forse quella più comune ed è legata ai concetti hindū di corpi sottili e conseguentemente di assetto energetico individuale. Tali corpi, secondo la metafisica induista, sono strettamente interconnessi e costantemente interrelati, in quanto tutti entangled tra loro e sono aspetti, apparentemente separati, di un’unica coscienza, ciò vale a dire che sono sempre in contatto, ma non consapevoli di tali reciproci contatti, se non attraverso gli effetti percepiti che questi contatti implicano. In altre parole, tali interazioni con i nostri alter ego, rispetto al nostro punto di vista (come individui appartenenti a Bhūrloka), avvengono, e sono possibili, naturalmente solo ad un livello quantistico, motivo per cui attraverso le informazioni quantistiche, situate a livello cerebrale, come sostenuto dal dott. Hameroff e dal fisico Penrose (Hameroff S. e Penrose R., Consciousness in the universe. A review of the ‘Orch OR’ theory, Physics of Life Reviews, 2014;11(1):39-78, Hameroff S. e Penrose R., Reply to criticism of the ‘Orch OR qubit’–‘Orchestrated objective reduction’ is scientifically justified. Physics of Life Reviews, 2014;11(1):104–112) che strutturano la coscienza di noi stessi, i nostri alter ego, definiti, genericamente, i nostri “corpi sottili”, condizionerebbero quelle che noi chiamiamo mente ed emozioni, a mezzo, secondo lo yoga, dell’azione dei chakra corrispondenti, le cui fonti, come vedremo alla sesta sezione, sempre relativamente alla metafisica dello yoga, sono a livello cerebrale. Logicamente, in condizioni normali e non alterate, noi non percepiamo questi “condizionamenti” come esterni, ma come parte integrante del nostro modo di sentire e percepire. Queste sono, a mio avviso, in relazione all’Induismo e ad alcuni aspetti dell’esoterismo, le principali modalità d’interazione tra mondi entangled. In base a quanto sinora detto, è chiara la definizione del termine “sottile” rispetto a tali esperienze, ed è altrettanto chiaro come, tale termine e il suo significato, possano aver dato adito ad interpretazioni scorrette, incomplete o non del tutto in linea con ciò che, verosimilmente, intendevano i testi sacri hindū, con il termine sanscrito: sūkshma. È chiaro che da questo mondo, possiamo intravedere ciò che c’e “dall’altra parte”, in altri mondi, come fossero degli ologrammi, dei riflessi o come sogni, Questo per quanto concerne la seconda e la terza modalità interattiva intermondi, da non estendere alla condizione di morte, dove non vi è, generalmente, all’incarnazione successiva, alcun ricordo di alcunché, e ne alla quarta condizione, quella più comune e condivisa, dove specifiche correlazioni quantistiche possono, in via teorica, condizionarci attraverso quelle che noi definiamo, emozioni e mente, senza alcuna consapevolezza dei processi quantistici sotterranei che sottintendono a tali stati emotivi e mentali. In altre parole i contatti tra mondi paralleli, tra alter ego e con gli individui appartenenti a tali mondi, non possono essere come le relazioni con entità dello stesso mondo all’interno della stessa frequenza di base, perché stiamo parlando di frequenze diverse caratterizzanti mondi in decoerenza rispetto a questo. Questo è il motivo per cui tutto ciò che, da sempre, concerne “l’aldilà”, viene percepito come “sottile” in quanto evanescente rispetto ai contatti dell'”aldiquà” dove tutto è quantisticamente coerente e in fase. Chiarito il senso di “sottile” e “denso”, approfondiamo ora come collocare i corpi definiti sottili, descritti nell’Induismo, ad alcuni aspetti della teoria MWI, concetto introdotto con la descrizione della quarta modalità interattiva tra alter ego. Cosa intendiamo per corpi sottili o kosha? “Corpi” che, in qualche modo, ricalcano quello fisico, ma più grandi e magari più perfetti, situati “sopra” di noi da “qualche parte”, senza saperli collocare? Dove visualizziamo tali corpi sottili, sulle spalle o intorno a noi? E hanno due braccia, due gambe e una testa? Quale spazio occupano? Proseguendo con il ragionamento adottato sino ad ora, è chiaro che non può esistere alcun corpo sottile fatto di una materia, in essenza, diversa da quella fisica. Se analizziamo il concetto di sottile qui definito, vediamo che i corpi definiti sottili, possono esprimere due specifiche modalità, essere o di natura microscopica o di natura più spirituale, attraverso una specifica vibrazione materiale (sattva guna), rispetto a quello fisico. Una premessa, prima di procedere, è necessaria. Nell’Induismo, quando si parla dei corpi più sottili, rispetto a quello fisico, il riferimento è al corpo emotivo o kāmamayakosha, mentale o manomayakosha, intuitivo o vijñānamayakosha, beatifico o anandamayakosha, volitivo o ātmamayakosha, e poi vi sarebbe la monade o paramātman. L’anima o ātman sarebbe costituita dai tre corpi: intuitivo, volitivo e percettivo, e la vera esperienza considerata spirituale, secondo sempre l’Induismo, è dal corpo intuitivo o buddhico, che comincia, ovvero dall’anāhata chakra, il corpo emotivo e quello mentale, non sono affatto considerati, nei testi sacri tradizionali, sebbene più sottili, come più “positivi” di quello fisico o annamayakosha. Conseguentemente, essendo tali corpi, tradizionalmente, collegati ai rispettivi loka, né Bhuvarloka e né Svarloka sono considerati, sostanzialmente, “migliori”, in senso assoluto, rispetto a Bhūrloka, esattamente come né svādhishthāna, né manipura chakra sono considerati tali rispetto a mūlādhāra chakra, mentre anāhata chakra e il corrispettivo loka (Maharloka), si. Svarloka, però rispetto agli altri due loka, è quello più vicino ai mondi spirituali di Maharloka e quindi è considerato, da questo mondo, come un passaggio molto importante, motivo per cui, in alcuni testi sacri, viene considerato un mezzo tra gli aspetti più materiali e quelli più spirituali della creazione, ma, nondimeno, essendo il loka associato a manipura chakra e alla mente, ed essendo la mente considerata, sempre nei testi sacri (dello yoga, del vedānta, ecc…), come fonte anche di schiavitù, per l’essere umano, la vera spiritualità inizia con Maharloka, anāhata chakra e buddhimayakosha. Ma se per Svarloka va fatto un discorso a parte, totalmente diversa è la situazione di Bhuvarloka, dove, pur essendo, considerato, più “sottile” di Bhūrloka, in alcuni casi viene descritto addirittura come più pericoloso dello stesso mondo “fisico”, tratteggiato come un luogo sovente abitato da asura o “demoni” e pieno d’insidie per l’essere umano, soprattutto quando viene associato al cosiddetto “piano astrale”, è quella dimensione considerata potenzialmente pericolosa per i medium. Eppure Bhuvarloka è più sottile rispetto a Bhūrloka. Ma perché, se sono più sottili, non sono anche più spirituali? Perché, sottile non sempre è sinonimo di spirituale, conseguentemente, cosa potrebbero essere, in realtà, i corpi sottili o kosha? È qui che la teoria MWI può venire in aiuto. Ipotizzando, l’esistenza di mondi quantisticamente decoerenti, rispetto al nostro quindi, normalmente, non percepibili dal mondo in cui io sto scrivendo e voi leggete ciò che ho scritto, è chiaro che, in tali mondi ci sarebbero, molti “me” e molti “voi”, degli alter ego, dei “noi” alternativi. Poniamo che tra tutti i possibili mondi ce ne sia qualcuno che è particolarmente entangled (termine inglese per definire un importante principio della meccanica quantistica che significa impigliato, aggrovigliato e ben si adatta al nostro caso), con il nostro (per comprendere meglio l’entanglement quantistico, v. Appendice n.2), questo comporterebbe che anche i rispettivi alter ego sarebbero entangled rispetto a noi, ovvero che tra noi e loro ci sarebbe una correlazione quantistica che condizionerebbe noi e i nostri rispettivi alter ego. Ipotizziamo, ancora, che due di questi alter ego entangled con noi, si trovassero, uno, dentro ad uno dei tanti mondi connessi al Bhuvarloka, e l’altro, in uno degli innumerevoli mondi all’interno di Svarloka, potrebbero tali interazioni avere un’influenza consistente sulle nostre emozioni e sulla nostra mente, attraverso correlazioni quantistiche definite? Tale influenza non avverrebbe a livello cosciente, ma ad un livello inconscio o, al limite, ad un livello subconscio (ovvero quel livello in cui si verificano fenomeni interiori che sono avvertiti vagamente a livello consapevole o conscio), come più sopra spiegato. E se quelli che anticamente venivano definiti “corpi sottili”, non fossero altro che le proiezioni di questi alter ego, visti attraverso particolari stati alterati della coscienza, da coloro che erano connotati da facoltà soprannaturali, tra cui, appunto, la chiaroveggenza, in grado, per brevi istanti o per poco tempo, di oltrepassare le barriere che dividono, questo mondo da quelli con i quali sarebbe entangled? Questo spiegherebbe, se non altro, perché sia i corpi sottili e sia le entità viste o canalizzate dai medium, hanno, generalmente, forti connotazioni umane. Potrebbe inoltre, chiarire anche il motivo per cui, nel vedānta hindū, ad esempio, si usa lo stesso termine per definire, sia il corpo fisico (annamayakosha) che gli altri corpi, ovvero: kosha ed anche perché, a tali corpi, non vengono associate solo fattezze umane, ma anche una notevole somiglianza con il corpo fisico dell’individuo in questione, eccetto qualche, irrilevante, differenza (vedere, ad esempio, Taittirya Upanishad, parte seconda, cap. 3-5). In altre parole, quello che viene, comunemente, in certi ambiti, definito come corpo emotivo, ad esempio, sarebbe un nostro alter ego, entangled con noi, abitante di uno dei tanti mondi appartenenti alla categoria associata a Bhuvarloka, e quello, generalmente, definito corpo mentale, altro non sarebbe che un nostro alter ego, entangled con noi, abitante in uno di quei mondi all’interno della categoria di mondi associata a Svarloka, naturalmente, questi alter ego, uno “emotivo”, rispetto a noi e un altro “mentale”, sempre rispetto a noi, sarebbero entangled anche tra loro. Ma in che modo, secondo tale modello, si verificano i contatti, ad esempio, tra gli ego mentali ed emotivi, e quelle che noi percepiamo come le nostre menti e le nostre emozioni? Che differenza c’è quindi, ad esempio, tra un alter ego mentale e il kosha corrispondente rispetto alla nostra mente, o tra un alter ego emotivo con il corrispettivo kosha e le nostre emozioni? Seguendo il suddetto esempio, l’aspetto fondamentale da comprendere in questo contesto è che l’unità costituita dall’ego mentale (manasahamkāra) e il suo corpo di espressione, definito mentale (manomayakosha), non è la nostra mente (manas) “qui” e “ora” in questo mondo (Bhūrloka), ma interagisce e conseguentemente influenza, attraverso un contatto definito e specifico, la percezione dei nostri pensieri, che altro non sono che il prodotto di specifici processi neurofisiologici chimico-elettrici del nostro cervello, percui, caratteristici di questo stesso corpo (annamayakosha). Così come la componente costituita dall’ego emotivo (kamāhamkāra) e il relativo corpo di manifestazione, o corpo emotivo (kāmamayakosha) non è da identificare letteralmente con la componente emotiva di questo corpo (annamayakosha), la quale si esprime per mezzo, ad esempio, del sistema limbico situato sotto la corteccia cerebrale e costituito da amigdala, ippocampo ed ipotalamo, quindi di una parte specifica di questo stesso corpo o annamayakosha, ma che, come nel caso precedente, interagisce, influenzando, attraverso un contatto caratteristico, la percezione delle nostre emozioni. Così è per ciascun corpo/ego (kosha/ahamkāra) di ogni mondo o loka. L’unico fattore, restando all’interno della filosofia induista, che contraddistingue un corpo (kosha) da un altro, è la differente qualità materiale (guna) che caratterizza la materia (prakriti) che li costituisce, ovvero, la maggiore o minore presenza della qualità più materiale (tamas guna) e di quella più spirituale (sattva guna), dal corpo più tamasico (annamayakosha), definito “fisico”, che vive in questo mondo (Bhūrloka), a quello più sattvico (ātmamayakosha), definito “volitivo”, che vive nel mondo definito dell’ascesi o dell’aspirazione (Taparloka), passando per gli altri quattro corpi caratterizzati ognuno da proporzioni diverse di sattva e di tamas, oltre i quali vi è la monade (paramātman), la cui natura resta indefinibile, se non per il fatto che, nei testi sacri, viene descritta come pura coscienza (paracaitanya). La stessa differente presenza dei due guna definisce, oltre ai corpi, anche i mondi corrispondenti (loka) e i relativi stati di coscienza (avasthā). Il punto di contatto tra i kosha/ahamkāra, ossia, la componente volitiva spirituale (ātma), la componente beatifica spirituale (ananda), la componente intuitiva spirituale (buddhi o vijñāna), la componente mentale (manas) e quella emotiva (kāma), in questo e negli altri mondi (loka), è l’organo cerebrale, ad un livello quantistico. Prendiamo come esempio generale manomayakosha o corpo mentale, esso dal suo loka, agisce, inconsapevolmente, attraverso una correlazione quantistica, per mezzo di specifiche informazioni quantistiche, nella zona cerebrale di prānamayakosha-annamayakosha (veicolo eterico-fisico) collegata e controllata da manipura chakra, quindi nel nostro corpo fisico. Tali stimolazioni si oggettivano poi in specifici processi elettrochimici, in particolari zone del cervello, che noi percepiamo come pensieri, immagini, ecc…lo scambio, in Bhūrloka (relativo a questo mondo), tra tale zona del cervello, relativa ad uno specifico stato quantistico, connesso a manipura chakra, e manomayakosha, corpo mentale o alter ego mentale, in Svarloka è continuo. Quando viene detto di purificare le nostre emozioni e la nostra mente, i testi sacri hindū intendono di purificare i corpi (kosha) sottili corrispondenti? Sostanzialmente si e per questo, in tali testi, viene data molta rilevanza ai kosha, ogni kosha/ahamkāra interagisce positivamente o negativamente con tutti gli altri, in quanto sono tutti, non teoricamente, ma letteralmente frammenti della stessa coscienza monadica primaria individuale e sono tutti correlati, ma quello che ha il compito più difficile e determinante, e il cui influsso è certamente più incisivo, è il kosha/ahamkāra di Bhūrloka, cioè l’ego fisico di questo mondo, in quanto a contatto con la materia più bassa, materiale, quindi intrisa fortemente di tamas. Nei testi hindū, il piano fisico o Bhūrloka è considerato il piano dell’illusione più forte ed intensa, dove l’inganno della māyā avvolge ogni cosa, con il suo potere oscurante, āvarana shakti, potere che acquisisce da tamas guna. Quando si tratta di Bhūrloka, mondo fisico o piano fisico, per definizione, l’esperienza è sempre necessariamente localizzata nel punto del tessuto spaziotempo caratterizzato dal Kālīyuga, dove lo scontro tra aspetto spirituale (sattva) che cerca di sopravvivere ed emergere, e aspetto materiale (tamas) che tende ad annichilire la coscienza e ottenebrarla, è ai massimi livelli, conflitto simboleggiato, nell’Induismo, anche dal campo di battaglia descritto nella Bhagavadgītā (importante testo sacro hindū), il campo di kurukshetra, ambientato appunto con il finire del Dvāparayuga e l’approssimarsi del Kālīyuga. Questo ego fisico è colui il quale deve contrastare le tendenze più pericolose che premono dal basso per ascendere, egli è, come il loka corrispondente, Bhūrloka, una sorta di spartiacque tra quello che può essere definito, mondo spirituale e mondo che, secondo un’accezione religiosa e mistica, potremmo definire demoniaco, infatti Bhūrloka è l’ultimo mondo prima dei pātāla o inferi. Da un punto di vista metafisico e mistico hindū, l’ego fisico è il sigillo che impedisce alle tendenze più profonde e demoniache di liberarsi, emergere ed inquinare i kosha (quando molti kosha si degradano, s’inquina, conseguentemente, anche il loka corrispondente) successivi, motivo per cui la sua influenza è quella più determinante e il lavoro di purificazione che opera la coscienza incarnata in Bhūrloka viene costantemente raccomandato nei testi sacri e nell’esoterismo in genere. L’ego fisico ha maggiore forza degli altri (primariamente nei tre mondi inferiori) nell’invertire e trasmutare qualsiasi tendenza o vāsanā, in altre parole gli ahamkāra mentale o emotivo possono condizionare parzialmente l’ahamkāra fisico, ma l’ahamkāra fisico condizionerà potentemente gli altri due, e poi, attraverso molteplici modalità, l’intero ātman costituito dai tre corpi superiori. Se ci fosse una guerra difficile da sostenere chi manderemmo in prima linea i più bravi a combattere o coloro, magari, caratterizzati da altre caratteristiche positive ma senza le caratteristiche adeguate per sopravvivere e affrontare il “nemico”? Il frammento coscienziale incarnato in Bhūrloka nel Kālīyuga è quello che, detto in altri termini, deve proteggere tutti gli altri ahamkāra, eccetto il paramātman, da interferenze che non saprebbero arginare e le quali ostacolerebbero seriamente il percorso evolutivo della monade. Per la monade, o paramātman, la conquista di questo piano grossolano è nevralgica per la sua evoluzione, la sua conoscenza e la sua espansione, essendo l’ultimo di questo sistema, prima del regno degli asura. Per questo gli effetti di questi ego su tutta la propria linea di appartenenza (gli altri cinque a cui sono primariamente correlati e la monade di appartenenza ma, teoricamente, tutte le probabili versioni possibili), sono dirompenti, nel bene e nel male, e sempre per questo il sahasrāra chakra ha un particolare rapporto con mūlādhāra come la prima forza con la settima. Non a caso la decima sephirah, l’ultima, aspetto della settima forza è conosciuta oltre che come Malkuth, anche come Shekinah, o Presenza divina. Il precedente esempio esplicativo della relazione tra manomayakosha, cioè corpo mentale e corrispettivo alter ego mentale, Bhūrloka e organo cerebrale, può essere utilizzato per tutti gli altri kosha/ego. Naturalmente perché le connessioni con i kosha e il cervello fisico, si mantengano inalterate, è necessario che non vengano compromesse le zone del cervello funzionali a tali contatti. Detto questo, noi quale contributo e quale tipo di correlazione stabiliamo con gli altri kosha/ego, rappresentando gli ego più fisici e materiali, i cui corpi sono definiti annamayakosha o involucri “fatti di cibo”, cioè fisici densi? La distinzione intuitiva, mentale, emotiva, ecc…è necessaria solo a definire comprensibilmente determinati livelli di materia, altrimenti incomprensibili, ma tali associazioni non devono confondere, perché, in realtà, sono tutti aspetti della percezione coscienziale, sebbene diversi, ma qualità diverse della medesima coscienza, stati diversi della stessa materia, le distinzioni, intuizione spirituale, mente, emozioni, fisicità, ecc…hanno l’unica funzione di distinguere uno stato dall’altro. Durante le interazioni con annamayakosha, succede esattamente come accade con gli altri kosha/ego. Anche noi siamo forniti di una specifica coscienza, è solo una qualità di coscienza, maggiormente intrisa di tamas, specifica frequenza, necessaria per entrare in uno stato di coerenza quantistica in Bhūrloka, e anche la nostra coscienza è connessa ad uno specifico sistema quantistico d’informazioni cerebrale, connesso ad uno stato quantistico, attraverso mūlādhāra chakra, il chakra più basso collegato a Bhūrloka, la nostra coscienza per la maggior parte del tempo, è lì che è polarizzata, ed è tale polarizzazione che, secondo la metafisica hindū, ci permette di sperimentare il jagrat avasthā, lo stato di veglia (in questo mondo). Tale chakra si collega, sempre ad un livello quantistico, ad una particolare zona del cervello. Essendo, ogni kosha/ego caratterizzato da tutti e sette i chakra, come per noi in questo kosha e in questo loka, ciascuno ha la coscienza polarizzata nel chakra connesso al suo stato quantistico, rispetto a vijñāmayakosha sarà l’anāhata chakra, rispetto a manomayakosha il manipūra chakra, per kāmamayakosha svādhishthāna chakra, come per il nostro ego e il nostro corpo, mūlādhāra chakra. Ogni kosha si collega agli altri per mezzo di specifici chakra, in una rete d’interazioni continua. Ad esempio, il chakra (e la corrispettiva zona dell’organo cerebrale) implicato in tutti gli altri kosha, attraverso cui percepiscono la nostra coscienza, è mūlādhāra chakra. L’apporto della qualità coscienziale legata a mūlādhāra, quindi la nostra, non è minore o meno importante rispetto alle altre, tale qualità specifica è, semmai, una percezione più “fisica” e materiale ma che, proprio per questo, è estremamente importante per tutti gli altri kosha e rispettivi ego, per acquisire, in senso lato, le caratteristiche legate alla settima forza, all’elemento terra (prithvī), in parte all’āpas (acqua), e al tamas, tra le quali vi sono aspetti molto importanti come: stabilità, consolidamento, compattezza e struttura, naturalmente, tali qualità si esprimono, ed agiscono, da un punto di vista coscienziale (a proposito di guna e sūkshmabhūta, vedere il capitolo Triguna (qualità primordiali), panchasūkshmabhūta (elementi sottili) e tridosha (principi bioenergetici), seconda sezione. In sostanza questo è il nostro contributo. Come viene percepito dagli altri kosha/ego tale contributo? Come pensiero o emozione? Come mente o componente emotiva? Semplicemente come coscienza qualificata e specializzata che coinvolge tutti i vari aspetti del sentire, e così è per l’influsso di ogni specifico kosha/ego, indipendentemente dai tentativi adottati nel cercare di definire attraverso il linguaggio tali aspetti (emozioni, pensieri, intuizioni, ecc…), ciò che contraddistingue un corpo, e il corrispettivo ego, da un altro, così come per i loka, da un una prospettiva metafisica induista, è solo la maggiore o minore presenza di tamas guna e corrispondentemente di sattva guna, unica causa efficiente alla base delle diverse modalità coscienziali di ciascun alter ego. Le influenze tra corpi/ego sono reciproche ed egualmente rilevanti. Come non esiste un chakra migliore di un altro o un loka migliore di un altro, ma sono tutti indispensabili, così non esiste un kosha migliore di un altro, dunque un alter ego migliore di un altro, conseguentemente un’influenza egoica migliore di un’altra, in quanto tutti gli ego sono frammenti coscienziali di un’unica monade o sé, e ciascuno apporta il suo contributo nel bene e nel male. Quanto detto, è fondamentale per comprendere alcuni punti importanti, necessari alla corretta comprensione di questi concetti e di come collocarli. Quando si parla di categorie di mondi all’interno di ogni loka, s’intendono tutte le possibili diramazioni che si sviluppano a partire dallo specifico loka che condividono con esso la stessa frequenza (sebbene con sottofrequenze differenti), quindi lo stesso avasthā o stato di coscienza, tali mondi sono stati definiti, per caratterizzarli in riferimento al mondo primario di riferimento o loka, come submondi o upaloka, ma sono mondi completi a tutti gli effetti con, all’interno, gli alter ego di ognuno. Questo fa si che gli alter ego in relazione, e in interazione, con ogni singola monade, siano innumerevoli, in questo senso, la distinzione in soli sei corpi (annamayakosha-prānamayakosha, kāmamayakosha, manomayakosha, vijñānamayakosha o buddhimayakosha, anandamayakosha e ātmamayakosha), esclusa la monade (paramātman), deve avere una sua giustificazione teorica metafisica. Inizialmente secondo alcune correnti, come abbiamo visto, la suddivisione di ogni loka è di sette upaloka, ciascuno per un totale di quarantanove upaloka esclusi i pātāla, ma, teoricamente, in linea con la teoria MWI, tale numero va esteso, potenzialmente, all’infinito. In quest’ottica è plausibile che ogni alter ego abbia la sua correlazione specifica con altri sei alter ego, ipotizzando una linea primaria composta da sei corpi, in relazione ai sei loka primari (Bhūrloka, Bhuvarloka, Svarloka, Maharloka, Janarloka e Taparloka), successivamente estesa a sette diverse linee costituita ognuna da sei corpi distinti da estendere poi nell’infinito delle probabilità. La monade (paramātman), è esclusa da questo conteggio perché, come abbiamo visto, per definizione e in accordo con gli insegnamenti mistici ed esoterici, è una singola essenza in relazione ad ogni distinta identità coscienziale, in altre parole, anche se vi fossero più stati, a quel livello, l’interazione tra tali stati sarebbe continua e immediata, senza interruzioni di coscienza come invece accadrebbe per le manifestazioni successive, esiste e viene descritto, infatti, generalmente, un unico stato monadico, e non differenti stati come nel caso dell’anima (volitivo, beatifico e intuitivo) e della personalità (mentale, emotivo e fisico), tra l’altro il termine stesso “monade” deriva dal greco “monas” e significa “uno”, “unico”, “singolo”. Come accade in una concezione induista e cabalistica ebraica, tutte le diverse manifestazioni coscienziali che hanno permesso la manifestazione negli aspetti più densi della materia, vengono riassorbite, nell’Induismo nel paramātman o monade, e nell’Ebraismo esoterico in neshamah o spirito supremo, entrambi i concetti sono da distinguere dal concetto metafisico di Brahman hindū e da quello di Ohr Ein Sof ebraico, nel senso che, mentre i primi due hanno un’accezione individuale relativa ad un’unica identità, gli altri due hanno, invece, un’accezione universale. In entrambi i casi però i corpi vengono riassorbiti nella propria individualità suprema. Nell’Induismo, annamayakosha-prānamayakosha, kāmamayakosha, manomayakosha, vijñānamayakosha (buddhimayakosha) e anandamayakosha vengono riassorbiti nell’ātmamayakosha, definito nel vedānta ātman, successivamente, nell’advaitavedānta o vedānta non dualista, l’ātman si riassorbe nel Brahman, perdendo la sua propria caratteristica individuale (tale concezione ha poi influenzato la tradizione buddhista), ma nel dvaitavedānta o vedānta dualista, le cose cambiano e viene introdotto, più o meno esplicitamente, il concetto di paramātman, o anima suprema, per distinguerlo dall’ātman in quanto tale, ad ogni modo in questa concezione vedantica permane, anche dopo l’assorbimento dei vari corpi nel principio spirituale, la distinzione eterna ente creato, Ente creatore, in questa corrente definito, alternativamente, Bhagavān, Īshvara o Isha. A.A.Bailey, nei suoi scritti (ad esempio, Bailey A.A., Trattato sul fuoco cosmico, Il Libraio delle Stelle, 1980. Bailey A.A., Iniziazione umana e solare, Il Libraio delle Stelle, 1950), in linea con le canalizzazioni pubblicate nella parte finale di questo libro, descrive una distinzione tra anima e monade e, in effetti, i termini per definire il principio spirituale nei testi hindū, sono principalmente due, appunto, ātman e paramātman. Anche la Bailey scrive di un principio superiore al piano monadico stesso (A.A.B. fa corrispondere, però, il piano monadico al sesto piano e non al settimo), definito Adi, o piano del Logos, che può essere fatto corrispondere, a mio avviso, al livello di un Ente superiore o Creatore. Tale concezione è anche in accordo con la divisione che nel misticismo esoterico ebraico, viene fatta in tre principi distinti ma fortemente interrelati: ruach o personalità, nefesh o anima e neshamah o spirito e, anche in questo caso, ruach si riassorbe in nefesh il quale si riassorbe in neshamah. Questa è la concezione che ho adottato anche in questo libro, ovvero la triplice distinzione personalità, anima, monade o jana, ātman, paramātman. Attraverso tale prospettiva, è verosimile che (in accordo ad alcuni aspetti della teoria MWI, pur essendoci innumerevoli linee, in questo specifico caso, per i motivi suddetti, costituite di sei corpi ciascuna) non tutte queste linee siano “buone” o positive in relazione alla monade (paramātman) e che venga fatta, rispetto alla concezione di processo reincarnativo come scopo evolutivo, una selezione sino a ridurle dapprima ad un numero definito di linee distinte, successivamente ad una sola linea, attraverso un percorso a ritroso, in linea con la filosofia yoga che descrive il risveglio spirituale come un processo inverso alla manifestazione centrifuga della creazione e quindi fortemente centripeto. Innumerevoli linee vengono riassorbite nelle linee principali, cioè più funzionali, come in una sorta di selezione naturale (in questo caso per l’evoluzione e la sopravvivenza della coscienza umana), per essere poi riassorbite nella linea primaria, tutti gli annamayakosha-prānamayakosha in un unico annamayakosha-prānamayakosha, tutti i kāmamayakosha in un unico kāmamayakosha, e così via per ogni kosha, assorbendo le esperienze di tutti questi “corpi” in sei ego distinti che poi confluiranno nell’identità monadica, attraverso il percorso, e la conseguente evoluzione, spirituale. Tale definizione di linea primaria potrebbe essere una possibile spiegazione di quello che viene inteso nel messaggio: La coscienza nello spaziotempo, all’ottava sezione, quando viene descritta una personalità primaria. A quale delle innumerevoli linee noi di questo mondo, apparterremmo è impossibile stabilirlo, ma quello che consegue da quanto detto è che noi, come ego o personalità fisica annamayakosha-prānamayakosha di “questo” pianeta Terra all’interno di Bhūrloka, eventualmente, non interagiremmo solo con i nostri alter ego appartenenti alla nostra linea, nei rispettivi mondi di Bhuvarloka, Svarloka, Maharloka, Janarloka e Taparloka, ma con gli altri alter ego sia di Bhūrloka che degli altri loka relativi a tutte le linee probabili e possibili, anche se, in riferimento all’attenzione e all’importanza che viene data a sei di questi corpi, sia nella tradizione induista che nelle maggiori correnti esoteriche, è naturale pensare ad un rapporto privilegiato e più viscerale, nonché evolutivamente più determinante, con la linea di riferimento alla quale ognuno di noi, singolarmente, apparterrebbe e questo principio è da estendere a tutti i nostri innumerevoli alter ego e alle loro rispettive linee, dei vari, innumerevoli, mondi all’interno dei saptaloka (sette mondi) e, per conseguenza logica, anche ai saptapātāla (sette inferni) di cui bisognerebbe ipotizzare altri sette corpi, dei quali però, nei testi induisti non vi sono riferimenti precisi, articolati e sistematici come per i corpi associati ai chakra e ai loka tradizionali, sebbene qualche indicazione in tal senso ci sia. Naturalmente, gli entanglement, con altri insiemi di alter ego, formano un sistema connesso molto complesso, articolato e di difficile decifratura. Infine, vi è un altro modo d’intendere la coscienza, da un punto di vista spirituale e metafisico, ed è quando questa è disincarnata, ovvero nel passaggio da un loka ad un altro, tra un’incarnazione e l’altra oppure, in stati e dimensioni, fuori da ogni incarnazione relativa ai corpi suddetti, che trascendono tutti gli spaziotempi concepibili, oltre ogni comprensione e dove qualsiasi tentativo nel cercare di comprendere tale manifestazione ad un livello più tangibile è del tutto inutile. Mi riferisco alla coscienza trasmigrante come espresso, ad esempio, dalle Upanishad: “La coscienza trasmigrante dello spirito entra dentro l’embrione, prodotto della fecondazione che è l’incontro dello spermatozoo con l’ovulo, lo sperma racchiude il vigore di tutte le membra del corpo umano. L’essere umano, attraverso la fecondazione, ha la possibilità di permettere ad un’anima di prendere dimora nell’embrione, colui che poi diviene un altro essere umano.” (Aitirya Upanishad, parte seconda, cap.1, v.1)
È abbastanza evidente, nella metafisica induista, anche fuori dai darshana suddetti, che per corpi sottili, guaine o involucri, s’intendono corpi a tutti gli effetti, del tutto simili, nella forma, a quello fisico di questo mondo: “…Oltre il corpo il cui sé è il prāna (prānamayakosha), che è oltre il corpo animato e nutrito dal cibo (annamayakosha), c’è un terzo involucro il cui sé è la mente (manomayakosha). L’involucro mentale è come un uomo mentale della stessa forma dell’uomo fatto di prāna e dell’uomo fisico dal corpo tangibile. Nell’uomo fatto di mente il Yajur Veda è il lato destro, il Sama Veda è il lato sinistro, gli Inni dei Brahmana sono il tronco, l’Atharva Veda e gli Inni degli angirasas sono la forza che conferisce la stabilità. il Brahman trascende tutte le parole e tutti i pensieri ed essi non potranno mai raggiungerlo. Colui che vive dentro di sé l’esperienza del Brahman, è sempre coraggioso, ovunque si trovi e con chiunque. Ancora più interno al corpo fatto di mente c’è il sé nella forma del vijñāna, l’involucro dell’intuizione (vijñānamayakosha). Anche questo involucro intuitivo ha una forma umana come l’involucro mentale. Tutti questi involucri hanno forma umana, in questo essere umano intuitivo la fede è la testa, il senso del dharma è il fianco destro, la ricerca della verità è il fianco sinistro, la meditazione spirituale è il tronco, l’intelligenza cosmica universale è la forza che lo stabilizza. È la spinta dell’intelligenza che ci spinge a compiere i sacrifici liturgici ed è sempre la spinta dell’intelligenza che ci spinge a sacrificare l’ego per compiere i nostri doveri. Il primo nato del Brahman è il deva fatto di intelligenza e conoscenza divina, colui che viene adorato dai deva inferiori. Se uno riuscisse a conoscere questo deva, realizzerebbe la vera gioia e la vera beatitudine. La vera conoscenza è realizzabile solo attraverso la vera intelligenza (vijñāna) e non è possibile senza trascendere l’uomo fatto di cibo, l’uomo fatto di prāna e l’uomo fatto di mente. Il vero sé dell’uomo fatto di mente è l’uomo fatto di intelligenza superiore (intuizione spirituale), distinto da questo vi è un altro sé conosciuto come ānandamayakosha (la guaina della beatitudine). Questa guaina è il sé (ātma) della precedente, anche la guaina della beatitudine ha la stessa forma umana di tutti gli altri corpi. In questa forma umana assunta dalla guaina della beatitudine, il piacere divino è la sua testa, la gioia divina il lato destro, l’estasi mistica è il suo lato sinistro, il sé è pura beatitudine e il Brahman è la forza che la stabilizza” (Taittirya Upanishad, parte seconda, cap.3-5)
Questi diversi corpi mantengono un’identità tra loro attraverso un’unica coscienza che si esprime attraverso frammenti diversi che emanano da un’unica fonte, tale fonte è la monade (paramātman), per questo quando tratto di coscienza, in questo contesto, intendo coscienza monadica o paramātmica e null’altro, e i frammenti coscienziali incarnati nei mondi in ciascun loka, dal Taparloka (compreso) sino al Bhūrloka, sono della stessa natura monadica della coscienza da cui derivano, ed è questo che rende i corrispettivi corpi (kosha) coscienti. Sono i frammenti di tale coscienza, le informazioni quantistiche che qualificano e distinguono ogni corpo nel suo particolare loka o mondo. Ciascun corpo ha il suo “pacchetto” d’informazioni quantistiche, quelle necessarie a contraddistinguere la sua particolare natura ed esperienza, necessarie a fare esperienza in quel particolare mondo, in quel particolare loka, tutti questi “pacchetti” sono connessi ad un livello molto profondo, ad un’unica identità, quindi ad un’unica individualità, che si trova in Satyaloka. Questa individualità viene definita suprema o superiore nei testi sacri, in relazione alla dipendenza che tutti gli altri alter ego hanno nei suoi confronti. Su come questa coscienza primaria riesca ad emanare frammenti di se stessa in altri mondi e attraverso quali modalità, si può teorizzare all’infinito. Ma ciò che voglio ora precisare è che fuori da questi corpi, il suo stato può essere definito come disincarnato, ovvero esistere ed essere senza esprimersi attraverso l’ausilio di uno dei sei corpi. Non tratto, nel caso specifico, di un corpo monadico, quindi, in tal senso, dell’ātmamayakosha, perché sulla natura del paramātman, i testi sacri hindū, tendono a compararla al Brahman, ovvero indefinita e incomprensibile, motivo per cui non ho elementi, relativamente ai testi tradizionali, per definire lo stato del paramātman o monade, cioè se sia incarnato in un corpo comparabile agli altri sei, oppure disincarnato in una condizione a noi imperscrutabile. Ciò che penso in riferimento al paramātman o monade, in linea con le Upanishad antiche, è che sia oltre ogni possibile illazione umana, almeno allo stato attuale di consapevolezza e comprensione spirituale. Il termine disincarnato, non è quindi da riferire, come generalmente si crede, al solo annamayakosha, cioè lo specifico corpo, definito fisico, in relazione a questo mondo, nel Bhūrloka, bensì a tutti e sei i corpi, da quelli considerati, tradizionalmente, inferiori a quelli considerati, tradizionalmente, superiori, da quello tradizionalmente definito denso, a quelli tradizionalmente definiti sottili. Premesso questo, e considerato indecifrabile lo stato della monade sul suo piano, quando uno specifico pacchetto d’informazioni quantistiche o frammento coscienziale, abbandona un corpo, questo è l’unico momento in cui viviamo realmente lo stato di disincarnati, in altre parole, senza corpi, dall’annamayakosha all’ātmamayakosha, siamo solo coscienza strutturata su specifiche informazioni quantistiche e speculare su tale condizione di passaggio, dalla condizione d’incarnati, è inutile o comunque molto difficile, come quando da un punto di vista macroscopico cerchiamo di comprendere il comportamento del mondo quantistico che, non casualmente, diversi scienzati definiscono controintuitivo. Naturalmente, i frammenti coscienziali non lasciano affatto, o almeno non necessariamente, tutti i corpi nello stesso momento, un corpo può essere deceduto in un mondo e quel frammento coscienziale vivere la sua esperienza di disincarnato, come in altri mondi, altri frammenti coscienziali vivere tranquillamente le loro condizioni d’incarnati in altri alter ego. L’esperienza della disincarnazione, come quella dell’incarnazione, è dunque relativa a quello specifico frammento coscienziale e non, necessariamente, ad altri o a tutti gli altri. Le possibili alternative, in tale prospettiva, al momento della disincarnazione sono due, una è quella di reincarnarsi, l’altra è che tale frammento si riassorba nella monade sul suo piano. La reincarnazione del frammento può avvenire sia all’interno dello stesso loka, in cui vi è stata la precedente esperienza, dove è avvenuto, quindi, il decesso del corpo che lo ospitava, sia in altri loka, nella stessa linea precedente (stesso corpo emotivo, mentale, ecc…), come in altre linee (cioè costituite da kosha differenti). Una delle modalità dell’incarnazione si svolge attraverso la maniera “classica”, quella più conosciuta e maggiormente descritta nei testi sacri, nonché da chi crede e professa il fenomeno della reincarnazione, ossia come esemplificato al versetto della Aitirya Upanishad, parte seconda, cap.1, v.1, presentato più sopra, cioè attraverso l’embrione, quindi per mezzo di una nuova nascita. L’āyurveda, a questo proposito, specifica che il paramātman, entra nell’embrione durante il passaggio alla fase fetale, cioè intorno al sessantesimo-settantesimo giorno dal concepimento. L’altra modalità d’incarnazione è quella in cui il frammento coscienziale trasmigrante viene assorbito nel frammento coscienziale di un alter ego, abitante in uno degli altri cinque loka, come in un mondo diverso dello stesso piano dimensionale o loka. In entrambi i casi, eccetto condizioni molto particolari, i ricordi della vita precedente, vengono azzerati da un’amnesia totale, nell’ultimo esempio fatto, la fusione dei due frammenti coscienziali, porta come conseguenza, ad una serie di cambiamenti nel modo di percepire e d’interpretare la realtà, in modi più o meno evidenti e più o meno consapevoli, ma, essendo frammenti della stessa coscienza individuale, senza ripercussioni sul senso d’identità dell’individuo. Certamente prima di reincarnarsi attraverso una delle due modalità suddette, possono esserci diverse condizioni post-mortem, forse anche quella di rimanere, più o meno transitoriamente, tagliati fuori da tutti i loka, in zone interdimensionali, nelle quali non è possibile interagire tangibilmente con alcuno dei mondi (quindi degli individui lì presenti), non avendo ancora i corrispettivi corpi, è il caso del “bardo”, termine tibetano che indica la condizione della coscienza nel dopo morte, nell’intervallo di tempo che si trova tra la morte e la successiva incarnazione, come ampiamente, anche se allegoricamente, descritto nel Bardo Thodol o Libro tibetano dei morti, testo tradizionale del Buddhismo tibetano. Altri stati particolari che vale la pena ricordare, e che definirei simil-disincarnati, in quanto il corpo è ancora in vita, sono quelli onirici di svapnāvasthā e quello definito, nel vedānta, di sonno profondo o sushupti avasthā, sperimentabili dalla condizione d’incarnato. Anche in questi ultimi due esempi, il frammento coscienziale può spostarsi da uno stato all’altro, quindi da un loka ad un altro, attraverso traiettorie specifiche e definite che sono quelle collegate agli alter ego specifici della relativa linea, in tal caso è possibile sperimentare limitatamente esperienze degli alter ego abitanti di altri mondi, senza, logicamente, potervi interagire direttamente ma, generalmente, attraverso un assorbimento parziale nella loro coscienza che da l’illusione momentanea di essere noi stessi a vivere determinate esperienze, nel senso di essere lo stesso ego, perché poi, in definitiva, ad livello profondo e spirituale, ogni kosha, come insegna l’Induismo, rappresenta lo stesso sé e quindi noi siamo loro e loro sono noi. Detto questo, su una cosa credo non ci sia molto da aggiungere arrivati a questo punto del trattato, e cioè che per abitare letteralmente in uno qualsiasi dei mondi, da Bhūrloka a Taparloka, c’è bisogno di corpi costituiti di materia, di questa materia, anche se, necessariamente, a livelli differenti, come spiega, ad esempio, il sāmkhya quando descrive diversi livelli di prakriti. Con questo, però, credo sia chiaro, non intendo che senza corpi sia impossibile interagire con questi mondi, ma la coscienza quantistica di per sé non ha alcuna forma definita, come i fotoni o quanti della radiazione elettromagnetica, o forse ha tutte le forme insieme in un’onda di probabilità infinite, ad ogni modo credo che la coscienza sia un mistero insondabile, e non solo da incarnati o per i neuroscienziati, i fisici teorici o i filosofi. Concludendo, credo sia compatibile intendere i sei frammenti coscienziali monadici (alter ego) che specificano e caratterizzano ciascuno dei sei corpi (kosha), come sei diversi sistemi d’informazioni quantistiche, per dire che l’incarnazione, in sostanza è materia qualificata che entra dentro ad altra materia, nel senso che stabilisce con essa una specifica relazione, e la qualifica. Al capitolo successivo, affronteremo le complesse relazioni tra emanazioni o forze, assetto energetico individuale, astrologia e teoria dei molti mondi.